domenica 11 marzo 2012

DA "LADRO DI LIBRI - AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE"

1 - EDUCAZIONE ALLA LETTURA


Ho la casa piena di libri, di librerie che occupano le pareti dell’ingresso, del salotto, di un corridoio che conduce alle camere, del mio studio.  I miei tre figli, Irene, Elena e Carlo, sono nati e cresciuti in questa casa. Hanno sempre vissuto in mezzo ai libri. Hanno visto il loro papà trascorrere gran parte del suo tempo con i libri in mano. Ogni tanto lo hanno visto indaffarato a sistemarli sugli scaffali, a riordinarli.
Nella loro vita potrebbero fare a meno dei libri? E, infatti, nelle case in cui vivono ora, le due figlie sposate hanno riservato ad essi il giusto spazio.
Ho tutti i motivi per ritenere che anche Carletto, ora sedicenne, quando avrà una sua casa, farà altrettanto. Già adesso, nella sua camera, ci tiene ad avere una libreria personale, distinta dalle mie, nella quale raccoglie i suoi libri. Tra questi, ce n’è anche uno della mia libreria che ha fatto suo. Si tratta di “Capitani coraggiosi” di Rudyard Kipling, un romanzo che mi aveva affascinato nell’adolescenza, e che per ritrovarne il sapore, qualche anno fa avevo preso a leggergli la sera, al momento di andare a letto.
Ho educato i miei figli alla lettura, all’amore per i libri, senza rendermene conto, trasmettendo loro in modo del tutto spontaneo questa mia passione.
Una passione che, una volta presa, non ti lascia più.
Questa premessa per dimostrare quanto l’esempio conti nell’educare i figli alla lettura (così come, del resto, a tutte le cose della vita, buone o cattive che siano). Ma se riteniamo che l’amore per i libri e la lettura sia un valore, i genitori, indipendentemente dalla propria abitudine e attitudine, del fatto che la lettura sia o meno per essi una pratica, potrebbero, intanto, provvedere a circondare i loro figli di libri. Se poi sono così bravi da dedicare del tempo ad essi, leggendo loro qualcosa, finché sono piccoli, magari la sera al momento di andare a letto, e poi, diventati più grandi, condividendo le scelte dei titoli, scambiando informazioni sulle letture svolte, incoraggiandoli, si sarà compiuta l’opera di formare altri lettori. So che Elena lo fa già con il suo bambino di quasi tre anni, il piccolo Diego, per il quale i libri – e ne ho le prove quando viene in casa da me – costituiscono già un’attrazione.
Io personalmente non ho memoria di letture che mi facevano i genitori. Però avevo due nonne che mi riempivano di racconti orali. Maria, la nonna paterna, una contadina istriana, la nonna che, nella lunga assenza di mia madre malata di tubercolosi e ricoverata in un sanatorio, mi ha allevato, era analfabeta e aveva avuto una vita dura da giovane. Subito in campagna a lavorare e, poi, a casa, una casa con il pavimento di terra battuta, mangiava solo dopo che i fratelli maschi s’erano saziati, se avanzava qualcosa, quindi a dormire, mica sul letto: sulla paglia, come bestie. Non c’era nessuno che le raccontasse le favole. E come poteva lei raccontarle a me? Mi raccontava però della sua vita, lassù, in Istria, nella campagna fuori Albona, la casa di Piculi Turini sull’altopiano, assolato d’estate, battuto dalla bora d’inverno, sopra la valle del fiume Arsa. I fratelli che, già adolescenti, scendevano in miniera. Quei pochi soldi a casa, col padre, li portavano loro. Cosa potevano contare le femmine come lei? Ma contavano poco per modo di dire, nella considerazione generale, non nei fatti. Che cosa avrebbero combinato i maschi senza le femmine che andavano a fare le braccianti in campagna e cucinavano e lavavano la roba per loro? La nonna neppure se ne rendeva conto. Accettava fatalisticamente il suo posto nella società, così come ha subito la Storia. Si sposa e va ad abitare a Fiume, perché il marito naviga. Fa sette figli. Di questi gliene muoiono quattro. Uno, Giuseppe, a tre anni, di difterite. Un altro, Ludovico, a 16 anni, suicida. Un’altra figlia, Veronica, muore per le complicazioni del parto del secondo figlio, lasciando così orfana a cinque anni la primogenita Clelia. Un’altra figlia della nonna ancora, Lidia, diciottenne, muore investita, mentre camminava tranquillamente sul marciapiede, da una jeep militare guidata da un partigiano di Tito a guerra appena finita, nel 1945. Ed anche il marito, mio nonno, marinaio con 35 anni di navigazione alle spalle, porti e città nel cuore, gli incontri con gli antifascisti a Marsiglia, anche lui muore, nel 1942, con la sua nave affondata dagli inglesi al largo delle coste tunisine. Lutti, che si portano dietro volti, parole, ricordi. Quelli erano i racconti della nonna. Ma non tutti carichi solo di tristezze. Ricordava anche di gioia  di quando s’imbarcava con il nonno, e potevano starsene soli in cabina. Una volta, nel pasteggiare con lei, il nonno aveva bevuto uno o due bicchieri in più di vino, un po’ inciuccandosi. Subito dopo doveva essere di turno in sala macchine, ma il suo secondo, al quale doveva dare il cambio,  vedendolo così allegro, gli aveva detto: “Torna in cabina con tua moglie, va, alle macchine ci penso io oggi”. Quante volte la nonna mi ha raccontato questo e altri episodi piacevoli? Lo ripeteva per la felicità che quel momento aveva dovuto rappresentare per lei…
E, poi, parlava della sua vita, sempre dietro ai tre figli rimasti, ciascuno con la sua storia, quella seguita all’esilio dall’Istria, da Fiume, con il passaggio di quella terra alla ex Jugoslavia. Vite, dopo il 1945, difficili, piene di stenti, nei campi profughi, col maggiore dei maschi, Tony, in carcere a Trieste, per collaborazionismo. La nonna che, dopo essere stata accanto alla moglie e alla figlia di lui, aveva dovuto raggiungere mio padre, il più giovane, fresco sposo appena ventenne, al campo profughi di Servigliano per via dell’aiuto da dare a  mia madre malata di tisi e incinta di me. Infine, dopo la mia nascita, il viaggio a Roma, al Villaggio Giuliano-Dalmata, per ricongiungerci con la primogenita Maria, già vedova a 31 anni, e le altre due nipotine. Lo avrebbe mai immaginato la bambina che correva scalza per i campi di Piculi Turini e Cugno, tra quel pugno di case sparse sull’altipiano sopra la Val d’Arsa, di finire in luoghi così lontani e diversi?
Ecco le “favole” della buona notte della nonna. Le favole che hanno nutrito la mia infanzia: nascevano tutte da quel mondo e da quelle persone perdute per sempre.
Quanto diversamente dall’altra nonna, Antonia, quella materna! Le ero ugualmente affezionato, anche se stavo con lei solo nelle poche settimane delle vacanze estive, quando andavo a Fiume. Sapeva leggere e scrivere ed era una grande affabulatrice. Lei si che le conosceva le favole, quelle vere, cioè quelle finte. Ci mettevamo seduti sulla porta che dava sull’orto, lei sulla sedia, io su una seggiolina, bassa, davanti a lei, le braccia incrociate sulle sue ginocchia. Una favola in particolare mi piaceva ascoltare “Alì Babà e i 40 ladroni”. Volevo che me la raccontasse tante volte. Non sapevo, allora, che era una favola de “Le mille e una notte”. Per quanto l’abbia poi molte volte letta, mai più ho ritrovato un “Alì Baba e i 40 ladroni” che possedesse la stessa forza d’incanto con cui la raccontava la nonna. Mi piaceva soprattutto il passaggio topico, in cui il capo dei ladroni, gabbatosi per mercante di olio, entra in casa di Alì Babà scaricando nel cortile le otri che al posto dell’olio nascondono i suoi uomini. E’ notte, l’olio dell’illuminazione è finita e la servetta di Alì Babà pensa di andarne a prendere un po’ nelle otri che il finto mercante ha lasciato nel cortile. Solleva il coperchio di una delle otri e sente una voce provenire dal fondo, quella di uno dei ladroni che, credendo che si trattasse del capo venuto ad avvertirli che era giunto il momento di agire, chiede “Xe ora?” (anche nonna Antonia naturalmente parlava in dialetto istriano come l’altra).
Io aspettavo trepidante questa fase del racconto, in cui la servetta veniva a scoprire l’inganno, la presenza dei ladroni che artatamente erano entrati in casa di Alì Babà per ucciderlo…  Forse era solo per quel momento, la sorpresa della servetta nell’udire quella voce, che le chiedevo di raccontarmi sempre quella favola, come piace ai bambini sentire sempre le stesse storie, che è la fortuna della serialità, come ha scritto Umberto Eco, parlando dei romanzi di Rex Stout, per cui il lettore vuole ogni volta ritrovare Nero Wolfe, con il suo fido e farfallone Archie Goodwin, e il cuoco Fritz e così via…
Mi sono accorto di questo meccanismo con i miei figli, quando a mia volta raccontavo loro le favole. Tra le tante, ne preferivano di solito una, quella con la quale poi sempre si addormentavano.
A Carletto raccontavo a mia volta principalmente “Alì Babà”, ma soffriva terribilmente quando i ladroni scoprono nella loro grotta colma di tesori il fratello avido di Alì Babà (che, eccitato da tanta ricchezza, s’era dimenticato la formula per aprire la grotta, cioè “Sesamo, apriti”) e lo squartano, mettendo ciascun pezzo del suo corpo ai quattro lati dell’ingresso… Di solito, per non arrivare a quel punto, si addormentava un attimo prima. Ed io non riuscivo più a raccontargli la storia per intero: il corpo squartato che viene recuperato  da Alì Babà, il calzolaio che, bendato, per non fargli vedere la strada, viene portato a casa di Alì Babà perché ricucisse le membra del fratello in modo da poter essere rivestito e lasciar credere alla gente (e ai ladroni) che fosse morto di malattia, così da non essere ricondotto all’uomo che era penetrato nella grotta; quindi, i ladroni che vanno alla ricerca di chi aveva portato via il cadavere, fino ad arrivare ad Alì Babà e, poi, passo passo, all’uccisione terribile dei ladri nascosti dentro le otri dell’olio;  e poi la fuga del capo dei ladroni, e il suo ritorno, tempo dopo, travestito, con la barba lunga, irriconoscibile, per l’estrema vendetta; ma la servetta, ancora lei, si accorge di un pugnale che il ladrone porta addosso, nascosto. E, allora, per distrarlo, si mette a danzare davanti a lui, lo ammalia con il suo corpo giovane, sensuale, fino a finire tra le sue braccia. Il capo dei ladroni l’accoglie, stringendola a sé, pensando a un’offerta d’amore, ma la servetta, fedele ad Alì babà, gli sfila il pugnale con il quale lui avrebbe voluto uccidere il suo padrone e lo ripaga della stessa moneta.
Certe favole è bello anche raccontarle, non solo ascoltarle: posso ben capire oggi mia nonna Antonia.
Carlo mi chiedeva questa o un’altra favola a seconda delle serate, del suo stato d’animo. La preferita, comunque, rimaneva “Nonna Abelarda”, la favola che avevo inventato io già con le sorelle e che è sempre stato il mio cavallo di battaglia.
“Nonna Abelarda”, nome preso da Walt Disney, ma senza nessun altro legame.
La vecchietta vive in campagna, tra tanti animali, il cavallo che fa “iihii”, l’asino che fa “iho, iho”, la capretta che fa “bee”, e così via facendo il verso per ogni animale, per finire con le galline. Di queste ne aveva dieci. Arrivata la sera nonna Abelarda le chiude nel pollaio, non prima, però,  di averle contate: una, due, tre… fino a dieci (un po’ per allungare i tempi del racconto, favorendo l’arrivo del sonno, un po’, se poi i bambini  non cedono ad esso, in funzione della sorpresa che verrà dopo).  Quindi torna a casa, si prepara la cena, mangia e, prima di mettersi a letto, legge un libro (mica guarda la televisione, scherziamo!). Infine, spegne la luce e s’addormenta. A un certo momento si odono dei passi, cauti, guardinghi… di chi saranno? Si sente il cancello del pollaio aprire, un cigolìo metallico, lento, un po’ rauco, di qualcuno che non vuol farsi sentire. E, infatti, nonna Abelarda non sente nulla. Dorme profondamente. La mattina dopo si sveglia, fa colazione (perché la colazione del mattino è molto importante), va al pollaio e scopre che le galline, a contarle e a ricontarle (“una, due, tre…”) sono ormai indubbiamente nove. Un grido. Capisce che quella notte è venuto un ladro. Decide così, per la sera successiva, di prendere il fucile e di mettersi a fare la guardia al pollaio. E, infatti, fa così. Ma passano le ore, una, due, tre…  e nonna Abelarda s’addormenta sulla sedia vicino alle galline.
Di nuovo i passi, il cigolìo del cancello. Quella notte c’è la luna piena e il ladro vede la figura di nonna Abelarda stagliarsi, nera, contro quella grande palla gialla. Tra l’altro russa piuttosto rumorosamente. Il ladro, cattivo, la colpisce alla testa. La mattina dopo nonna Abelarda si sveglia, ritrovandosi distesa a terra, con il sole alto, la testa dolorante e le galline che le zampettano intorno. Ohi ohi, si lamenta nonna Abelarda, che, con un cattivo presentimento,  conta le galline, una, due, tre… e scopre che ora sono otto.
A quel punto, decide di andare a comprare un cane da guardia. Si veste per andare in città - cappellino, borsetta, ombrello - e va alla fermata dell’autobus. In città si mette alla ricerca di un negozio di animali, lo trova e chiede un cane, che però non costi molto perché lei è povera e non può spendere molto. Il negoziante le risponde che a basso prezzo le può vendere solo un bastardino, molto intelligente ma per nulla addestrato a fare la guardia. Per lei va bene: le basta che abbaia agli sconosciuti.
“Oh, questo sì!” assicura il negoziante. Così, nonna Abelarda, lo compra e, fiduciosa, torna nella sua casa in campagna. La sera lo lega davanti al cancello del pollaio. Lei adesso è tranquilla: cena, legge, chiude la luce. Ed ecco che nel cuor della notte è svegliata dall’abbaiare del cane. Contenta di catturare il ladro, afferra il fucile, si mette addosso la vestaglia, prende la torcia elettrica ed esce di casa. Ma quando arriva nei pressi del pollaio, il cane non abbaia più. Anzi, con orrore lo vede agonizzante a terra, con mezza polpetta davanti alla bocca che esala l’ultimo, straziante guaito. Il ladro, evidentemente, ha dato da mangiare al cane una polpetta avvelenata. E poi, ne è certa, ha rubato un’altra gallina. Le conta… una, due, tre… e, infatti, adesso sono sette. Nonna Abelarda si arrabbia tanto, prende tutti i suoi risparmi e corre in città a comprare un altro cane, questa volta bravo, addestrato, non solo a fare la guardia ma anche a non prendere cibo dagli sconosciuti. La sera lo lega davanti al cancello del pollaio e…
A questo punto almeno una delle figlie, Irene, la più grande, s’era addormentata. Elena, la seconda, tignosa, per quanto assonnata, resisteva, voleva scoprire chi era il ladro, sempre che nonna Abelarda fosse riuscita a catturarlo. Carlo cercava di resistere pure lui…
Intanto, la vecchietta cena, poi si mette a leggere, come sempre, e quindi chiude la luce. Pensa un po’ al cane che è fuori a fare la guardia, quindi sbadiglia e senza accorgersene si addormenta… grr.. zz.. grr.. zz.. come dorme tranquilla! Così come, a quel punto, dormiva tranquilla anche Elena che, al pari della sorella, non avrebbe saputo come finiva la favola, ma soprattutto non veniva mai a sapere chi fosse il ladro.
Non so neppure io come finisce la favola. L’avevo inventata all’impronta e ripetuta mille volte senza arrivare al finale, che naturalmente è libero. Irene ed Elena il giorno dopo me lo chiedevano: “Ma chi è il ladro, papà?”. “Stasera lo saprete…”. Nel frattempo sono diventate grandi, si sono sposate, sono diventate mamme…
Anche Carletto, nato sedici anni dopo la secondogenita Elena, mi chiedeva di raccontargli  “Nonna Abelarda” che, a differenza di me, non invecchia  più di quanto già fosse nel passato.
A un certo momento, però, con Carlo, dal racconto orale sono passato alla lettura. L’ho deciso quando, alla fine della prima elementare, ho scoperto che aveva problemi di dislessia. Sì, proprio mio figlio… (come ne aveva Elena, ma ci sarebbe stato rivelato da lei quando era pressoché laureata, entrambi caratterizzati da una sorta di ambidestrismo, o meglio di mancinismo impuro, che sembra essere alla base della loro forma di dislessia). Così, insieme abbiamo letto il primo libro di Harry Potter, “Harry Potter e la pietra filosofale” di J.K.Rowling, per un omaggio alla moda e per soddisfare una precisa richiesta di mio figlio che ne aveva sentito parlare, per poi passare a un libro che mi aveva particolarmente rapito da ragazzo. Parlo de “La teleferica misteriosa” di A.F. Pessina, che avrebbe, comunque, entusiasmato anche lui.  
Gli avevo parlato da tempo di questo libro, la storia di cinque ragazzi, allievi di un collegio di montagna, che scoprono improvvisamente che la teleferica della miniera vicina, abbandonata da tempo, invece funziona. Come mai? Scoprono orme sulla neve fresca, altri indizi. Chi si nasconde nella miniera? Quali segreti cela? Le loro indagini sono due volte pericolose, per i rischi a cui possono andare incontro, e per il fatto di svolgerle di nascosto dagli insegnanti e dagli istitutori, infrangendo le ferree regole del collegio… Che brividi! Gli avevo parlato di questo libro e non riuscivo a trovarlo da nessuna parte. Eppure, da un’intervista a Mario Spagnol a “La Repubblica” avevo saputo che la Salani aveva stampato una copia anastatica della vecchia edizione. Ho cercato quel libro dovunque, poi mi sono deciso a chiedere un favore ad alcuni amici della Salani, che mi hanno accontentato mandandomi una delle ultime copie di magazzino. Ora il libro è allineato con tutti gli altri che Carletto sta raccogliendo e che comincia a leggere da solo perché, per fortuna, la dislessia si cura. Spero, anzi, che mio figlio finisca con l’amare ancora di più i libri di quanto li ami io, per rappresentare essi una doppia conquista.
Intanto, continuo a regalargli libri. Come facevano i miei genitori con me, anche se il loro era un modo di venire incontro ai miei desideri più che al loro. Mia madre ricorda sempre: “Quando eri bambino non avevi tanti giocattoli. Ti piaceva leggere e noi ti regalavamo libri”. Così, con la mia crescita, hanno cominciato a entrare in casa e a prendere via via sempre più posto nella mia cameretta, tanto da costringere i miei genitori a ordinare dal falegname quella che sarà la mia prima libreria: un mobile a parete composto di tre pezzi, uno fatto quasi interamente ad armadio e gli altri due, con la parte bassa riservata a ripostiglio e il resto a libreria
Io ho memoria di molti libri di fiabe. Di alcuni di essi ho presente anche la copertina o, se non quella, qualche illustrazione interna. Ricordo, ad esempio, la copertina di una fiaba intitolata “Povero ma felice”. Sullo sfondo interamente giallo era disegnato un vagabondo sorridente, con ai piedi delle cioce e i pantaloni vagamente alla zuava. Il vagabondo reggeva sulla spalla un bastone in cima al quale era annodato un fagottino. Era incamminato su un sentiero ai bordi del quale era piantato un cartello a freccia sul quale era scritto Grimm, il nome dei fratelli che avevano scritto quella fiaba. Non ricordo nulla di essa. Per molto tempo ho cercato di individuarla, per rileggerla, e su un libro dei Grimm che mi ha regalato mia figlia Irene “Le fiabe del focolare” l’unica che dal titolo ricordi quello lontano di “Povero ma felice” è “Il ricco e il povero”. Sarà la stessa fiaba? Io credo di si.
“Il ricco e il povero” racconta del tempo “quando il buon Dio errava ancora sulla terra” e, arrivato stanco, di sera, alla casa di un ricco commerciante, chiede ospitalità. Il ricco gliela nega. Allora Dio attraversa la strada per raggiungere la casupola di una famiglia povera, composta solo di marito e moglie, ai quali rivolge la stessa richiesta. E i due offrono subito al viandante addirittura il loro letto, mentre essi vanno a dormire sulla paglia. Il mattino dopo, Dio li vuole premiare offrendo loro la possibilità di esaudire tre desideri.
“Che altro devo augurarmi” risponde il povero “se non la salvezza eterna e che noi due, finché viviamo, ci conserviamo sani e possiamo avere il nostro pane quotidiano?”. Dio gli fa: “Non vuoi una casa nuova al posto della vecchia?”, e il povero dice naturalmente di sì, ed ecco che la loro casupola si trasforma in una bella casa con tutte le comodità.
Il ricco commerciante, quella stessa mattina, si affaccia alla finestra e scopre, con sua grande sorpresa, quella improvvisa trasformazione. Incuriosito, ed anche un po’ invidioso, corre subito presso i due poveri dirimpettai per sapere cosa era accaduto quella notte e si sente rispondere che, semplicemente, avevano offerto ospitalità a un viandante, il quale aveva poi chiesto loro di esprimere tre desideri che sono stati prontamente esauditi. Il commerciante, allora, inforca il cavallo e va subito alla ricerca del viandante, lo trova e si scusa per non averlo ospitato, accampando motivi inesistenti. E, a sua volta, chiede di poter esprimere anche lui tre desideri. Il buon Dio acconsente. “Va a casa” dice al commerciante “e i tre desideri che esprimerai saranno esauditi”.
Lungo la strada, il cavallo del commerciante un po’ si imbizzarrisce, lui non riesce a tenerlo a freno ed esclama: “Vorrei che ti rompessi il collo”. Di punto in bianco il cavallo stramazza a terra. Il primo desiderio, con suo cruccio, è esaudito. Ora gli restavano gli altri due. Rimasto a piedi, con il peso della sella e degli altri finimenti del cavallo sulla propria schiena, irritato, pensa alla moglie che invece se ne sta tranquilla a casa. “La vorrei seduta su questa sella e che non potesse scenderne, invece di trascinarmi io questo peso”, quasi inveisce. E subito lui resta senza più sella, che ritrova però a casa, quando ci arriva, con la moglie a cavalcioni di essa. Il secondo desiderio era esaudito. Non resta che il terzo. E quale può essere se non quello che la moglie, per servirlo, potesse scendere dalla sella? Le parole finali del racconto: “Così da quella storia egli non ebbe che stizza, fatica, ingiurie e un cavallo perduto. I poveri invece vissero felici, tranquilli e devoti fino alla santa morte”, lasciano credere che il racconto fosse proprio quello del mio ricordo e, quindi, il vagabondo che la copertina ritraeva altri non era che Dio.
Di altri libri di fiabe, ricordo anche la straziante copertina de “La piccola fiammiferaia” di Hans Christian Andersen, con la bambina morta sulla neve in mezzo ai fiammiferi che aveva acceso nel vano tentativo di riscaldarsi sotto la finestra illuminata di una casa in cui una famiglia festeggiava il Natale. Una favola, quella, che mi aveva molto impressionato. Avevo provato paura anche leggendo Pollicino, dei fratelli Grimm, del quale però possedevo una versione intitolata “Tredicino”, perché il fratellino che aveva udito i genitori decidere di portare e abbandonare i loro figli nel bosco era il tredicesimo della nidiata. E sarebbe stato lui a seminare i sassolini lungo il percorso per poi ritrovare la strada di casa. E paura mi fece “Hans e Gretel”, di cui ricordo l’illustrazione dei due bambini, anch’essi artatamente abbandonati dai genitori nel bosco, attirati nella casa di marzapane dalla vecchia strega cieca e cattiva che li avrebbe chiusi in gabbia per mangiarli. Voleva però prima farli diventare belli grassi. E ogni mattina si trascinava fino a loro per toccarli. “Hansel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso”, ma egli, invece delle dita, le allungava un ossicino di pollo per farle credere che era ancora troppo magro, così prendendo tempo. Che terrore in quell’attesa!
“Tredicino”, “Hans e Gretel”… indimenticabili! Evidentemente, da bambino, restavo turbato dagli abbandoni. Quelli che, da neonato, avevo sofferto io a nove mesi di età, quando mia madre, malata di tisi, segnata dalla vita grama del campo profughi, dovette lasciarmi per essere ricoverata in un sanatorio. E la lettura, chissà, ha assunto per me una funzione materna. Oggi come ieri, con un libro in mano, non mi sento mai solo, mai abbandonato.
Mio padre che, con la nonna, mi è sempre rimasto accanto forse lo aveva intuito. Almeno una volta a settimana, io ormai adolescente, arrivava a casa dall’ufficio portandomi un libro, un romanzo. Lavorava a Roma, in via Barberini. Ci arrivava con la metropolitana, che all’epoca aveva il capolinea a Stazione Termini. Per raggiungere il suo ufficio la mattina, e poi tornare a casa la sera, era costretto a passare sempre per le bancarelle di libri di piazza della Repubblica (ci sono ancora, ma all’epoca quella serie di bancarelle venivano chiamate “Fiera del libro”). A quel punto mi comprava un libro. Ciò rendeva molto più bello il suo ritorno…
Non so quale criterio usasse nella scelta dei titoli e degli autori. Doveva forse fare affidamento sulle sue reminescenze scolastiche, molto scarse per altro: aveva lasciato giovanissimo la scuola per andare a lavorare e poi, a 19 anni, per la guerra in corso, essere arruolato. E le sue reminescenze non potevano rifarsi che ai classici, quelli però più popolari e diffusi tra i ragazzi della sua generazione. Alexandre Dumas, con la trilogia de “I tre moschettieri”, “Vent’anni dopo” e “Il visconte di Bragelonne”, e poi, naturalmente anche “il conte di Montecristo”. Poi Hugo. Il primo titolo di questo autore che mi aveva regalato fu “L’uomo che ride”. Mi portava anche molti feuilleton, che molti anni dopo, pur cercandoli, non ho più ritrovato, come “Il fiacre n° 13” di Saverio de Montepin, storia appassionante di un trovatello abbandonato proprio sul fiacre di cui il titolo… Erano tutte edizioni economiche, ovviamente. Non eravamo così ricchi da poterci permettere libri più costosi. Tra questi, quello più lussuoso lo ricevetti in regalo dal direttore di un negozio di abbigliamento di via Barberini, Beltrame, che forniva le divise blu ai commessi dell’Adriatica Navigazione  dove mio padre lavorava e del quale anche privatamente eravamo diventati clienti, grazie al fatto che potevamo pagare a rate i vestiti che compravamo lì. Il libro era “Il principe e il povero” di Mark Twain, comprensivo di illustrazioni colorate. Raccontava una storia che, mentre la leggevo, mi angosciava moltissimo: non riuscivo proprio a sopportare che il principe, scambiato il suo ruolo con il sosia povero, non potesse essere creduto quando affermava di essere lui il vero principe… Credo, per questo, di non essere mai riuscito a portare a termine la lettura.
Tra gli autori che mi aveva portato mio padre, il più importante per me fu Kipling, quello di “Capitani coraggiosi”, anche se prima ancora, nella edizione per ragazzi, con le illustrazioni, avevo letto i suoi libri della Jungla. Ma “Capitani coraggiosi” è stato un libro che ha rappresentato una vera e propria svolta nei miei gusti. Perché d’allora la mia predilezione va ai romanzi di formazione, quelli che insegnano cos’è la vita, indicano le possibili strade per affrontarle, e lo fanno nelle condizioni, paradigmatiche, dell’avventura e con personaggi, uomini o ragazzi, soli, come Harvey, il protagonista di “Capitani coraggiosi”. Avventura che, col passare degli anni, ha preso altre forme rispetto a quelle tipiche, commisurate all’azione e al mistero, dell’infanzia e dell’adolescenza. E’ diventata l’avventura del vivere, del saper cogliere i passaggi che danno senso, significato all’esistenza.
Anche se il mio atteggiamento verso la lettura era, ovviamente, ancora del tutto spontaneo. Come ricorda Maurizio Bettini nel suo “Con i libri”[1]: “Non mi sono mai chiesto che cosa ci si dovesse fare con ‘Capitani coraggiosi’ (ma guarda la coincidenza!), lo leggevo e basta”. E più avanti: “Quando c’era cibo per tutti senza che si dovessero coltivare i campi, c’erano vino e latte perché zampillavano spontaneamente dalla terra. Gli uomini allora non si domandavano che cosa ci dovessero fare con il mondo che avevano intorno, non pensavano né di trasformarlo né di sfruttarlo. Ci vivevano e basta. Così era nella mia età dell’innocenza, quando leggevo i libri solo per leggerli, perché c’erano, a portata di mano, e davano piacere”.
Era un piacere, e tale è rimasto, perché liberava emozioni che, altrimenti, uno avrebbe magari tenuto dentro. Cosa significavano le lacrime che mi si sciolsero, quasi a dirotto, dopo la lettura de “Il giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett, un libro in cui, come scrive lo psicobiologo Alberto Oliveiro in “L’arte di imparare”  “venivano esplorati nuovi spazi e si individuavano porte nascoste”?
Nel caso del libro di Hodgson Burnett era la scoperta che la vita è anche morte e dolore, ma in altri casi potevano essere altre le porte nascoste.
A riguardo, verso i 14 anni, restai folgorato da un altro libro, trovato a Trieste, a casa di zia Vittoria, una zia di mia madre, sorella di nonna Antonia. Questa aveva una piccola biblioteca lasciata dal figlio unico, Luciano, che un giorno, dopo aver preso il diploma all’Istituto nautico, era improvvisamente scomparso, fuggito da casa, senza dire nulla ai genitori, per non avere ostacoli, dinieghi. Zia Vittoria era una di quelle madri sempre incombenti. La domenica, lei e il figlio andavano in giro per il Carso, a Miramare, Duino. Luciano, divenuto grande, probabilmente a un certo momento doveva aver sentito il bisogno di tagliare il cordone ombelicale. Inutile rivelare i suoi sogni o programmi per il futuro: zia Vittoria gli sarebbe andata dietro in capo al mondo, non lo avrebbe mai lasciato solo. E così l’unica soluzione per lui, doveva aver pensato, era quella di andarsene senza rivelare la meta, scomparire almeno per un po’, quel tanto da mettere una grande distanza tra lui e la madre… Poi, una volta compiuto il passo, Luciano evidentemente non voleva farsi vivo subito, per non essere richiamato o raggiunto. Il silenzio dovette apparirgli l’unica soluzione, magari, pensava, fino a che non si fosse sistemato. Ma poi, trascorsi gli anni, chissà, il senso di colpa nei confronti dei genitori, in particolare la madre, la vergogna, il timore per una loro reazione scomposta, dovevano aver agito su di lui. Non un segnale, una lettera, niente. Neppure a parenti e amici. Finché una cugina, emigrante in Australia, lo aveva incontrato per caso laggiù. Nel frattempo, però, erano trascorsi ben lunghi, infiniti dodici anni da quando se n’era andato da casa. Anni durante i quali zia Vittoria aveva tenuto tutte le cose di Luciano così come le aveva lasciate, nella speranza di rivederlo presto tornare. E proprio lì, nella sua piccola biblioteca, pescai, io quattordicenne, il libro di un autore per me allora sconosciuto, Ernest Hemingway. Il libro era “Per chi suona la campana?”. Un romanzo d’avventura, certo, ma anche questo, come già “Capitani coraggiosi”, di iniziazione, sentimentale, politica, tutto. Quale migliore esplorazione di nuovi spazi e scoperta di porte nascoste se non quel libro che in quei giorni di vacanza triestini avevo letto di un fiato? Forse fu la prima volta in cui scoprii il sesso nelle pagine d’amore tra Jordan e Maria, loro due insieme nella scena del sacco a pelo. Zia Vittoria s’era accorta della passione con la quale avevo divorato il libro e ne parlavo che prese l’iniziativa, incredibilmente, di regalarmelo, privandosi così di un oggetto che apparteneva al figlio. Io non potei non sentire il valore pieno di quel gesto straordinario. Conservo ancora quel libro, nella edizione Mondadori, numero 166 della famosa collana della “Medusa”, tredicesima edizione, stampata nel luglio del 1951, per la traduzione di Maria Napoletano Martone.
Un libro grazie al quale, tra l’altro, Ernest Hemingway diventò per me lo scrittore culto. Non solo presi a leggere tutti i suoi romanzi, ma anche a cercare libri che parlassero della sua vita, del suo modo di lavorare, che mi spiegassero come erano nati, oltre a “Per chi suona la campana”, gli altri suoi romanzi, da  “Addio alle armi” a “Fiesta”, per dire di altri due romanzi di Hemingway che mi avevano colpito (“Fiesta”, poi, con quel protagonista, Jake Barnes, ferito nella propria sessualità che turbava il passaggio incerto all’adolescenza, con il timore delle prime esperienze sessuali, di non essere all’altezza, come lui con Brett, nelle prove richieste). Un processo lento. Il primo saggio su Hemingway, il primo di critica letteraria, che lessi in assoluto, fu quello pubblicato da Feltrinelli nella collana di monografie “La biblioteca ideale”, che riproponeva quella di Gallimard curata da Robert Mallet, mentre quella italiana era a cura di Oreste Del Buono. Il titolo era, semplicemente, “Hemingway” a cura di John Brown e Livia Livi[2], corredato, tra l’altro, di splendide fotografie in bianco e nero dello scrittore (come non amarlo, anche solo per quel suo physique du role, che d’allora incarnò per me il prototipo della figura dello scrittore?).  Avevo 16 anni. Della stessa collana, subito dopo, avrei letto altre due monografie, “Moravia”[3], del quale cominciai a leggere i romanzi, e “Simenon”[4], con la sua alacrità, i suoi tic, la sua capacità inventiva.
Da quel momento, leggere divenne non più solo una passione, ma anche una forma di autoeducazione, inevitabilmente una perdita di innocenza che però ritrovo ogni volta che m’imbatto in un romanzo, in un autore che ha la forza di estraniarmi.
Mi chiedo solo: dov’era la scuola in tutto ciò?
Personalmente, in tutto il mio ciclo scolastico, ho ricordo di una insegnante soltanto che ha cercato di avviare noi alunni all’amore per la lettura. Era Gioiella Englen, figlia del grande poeta gradese Biagio Marin. Fu la mia insegnante alle scuole medie e, spesso, ci leggeva brani di libri che l’avevano toccata. Ad accomunarci sarà stato il fatto che eravamo entrambi due giuliani a Roma, ma io mi sentivo molto in sintonia con gli autori che ci presentava. In particolare ricordo la lettura di un libro scritto da suo fratello Falco, morto in guerra, in Slovenia, il 25 luglio del 1943. Il padre ne aveva raccolto gli scritti. E Gioiella, con voce commossa, ci leggeva brani di essi. Ricordo i nostri occhi che s’incontrarono, i suoi lucidi di commozione, nel momento in cui, nel silenzio che s’era fatto nella classe, li sollevò dalla pagina e richiuse il libro nelle mani.
Credo, però, anche, che quell’attenzione che il testo era riuscito a suscitare in me si inserisse in una passione preesistente per la lettura, quasi una predestinazione, testimoniata dal fatto che i miei genitori mi regalavano libri perché avevano scoperto il piacere che mi procuravano.
Comunque, è certo che, al di là della casualità, della spontaneità, con la quale uno si appassiona alla lettura, a dare consapevolezza della importanza che essa riveste nella formazione della persona deve essere la scuola. Un’istituzione del genere non può lasciare l’educazione alla lettura al caso. Tutti gli insegnanti devono imparare le tecniche di seduzione che possono spingere un alunno verso l’amore per i libri. Purtroppo, però, c’è da dire, desolatamente, che nella scuola ci sono insegnanti, forse la maggioranza, che a loro volta non amano i libri, non amano la lettura. E questo è grave, perché, per citare quanto due studiose, Serena Fornasiero e Silvana Tamiozzo Goldmann hanno scritto nella loro ricerca “Leggere”[5]: “nella scuola di massa l’insegnante è spesso l’unico tramite tra lo studente (che può venire da situazioni familiari difficili, in cui è già molto se in casa c’è l’elenco telefonico) e il libro.”
A questo punto, educare alla lettura non vale solo per i bambini, ma anche per gli insegnanti. Anche se poi, alla fine, la passione per la lettura probabilmente arriva, come l’amore per una donna (o un uomo), come l’innamoramento, per altre strade misteriose.
Come quelle che, ad esempio, hanno portato all’amore per la lettura una giovane cugina greca di mia moglie, Iannulla. Figlia di poveri contadini semianalfabeti, vive nell’isola di Kos, in un villaggio sperduto di montagna  chiamato Asfendiou, dove trascorriamo le estati. Priva di mezzi economici, prende i libri in prestito dalla piccola biblioteca di un villaggio vicino, Pilì, e solo al mio arrivo può rifornirsi di libri propri, che io acquisto con la stessa gioia che provo quando li acquisto per me e che ritrovo in lei, nel suo sorriso, ogni volta che torno da Kos città portandole, come faceva mio padre con me, uno o più libri, gli stessi, in lingua greca, che erano piaciuti a me. Raramente capita che Iannulla scenda con me e, insieme, ci mettiamo a cercare tra gli scaffali. Quando capita, però, sono curioso di scoprire i libri, gli autori che desidera, di sua spontanea scelta. Una volta ha voluto Toni Morrison, della quale aveva sentito parlare per aver vinto il premio Nobel. Forse aveva saputo che questa scrittrice narra i sogni e le tensioni all’interno delle piccole comunità nere, così come è una piccola comunità quella del villaggio in cui Iannulla vive… Un’altra volta, aveva scelto un libro di tutte le poesie di Ghiannis Ritsos.  Un giorno ho scoperto che anche lei scrive poesie…
Da quale fonte deriva, chi le ha trasmesso questa passione? Non certo i genitori, né, probabilmente, la scuola…
Tante volte penso di essere stato io la fonte. Il caso ha voluto che quando lei doveva nascere e alla madre cominciarono le doglie, 25 anni fa ormai, io mi trovassi lì, con mia moglie, le figlie, mia suocera e le sue sorelle, unico uomo in casa. Gli altri erano tutti via, nei campi o altrove. Io me ne stavo tranquillamente a leggere sotto il gelso in fioritura in quella primavera. Mia suocera mi chiamò.
“Attulla ha le doglie, c’è da portarla in ospedale. Corri a chiamare un taxi!”
Così corsi all’unico telefono pubblico del villaggio, al magazzino, unico negozio, di Michalis, aspettando poi lì, con l’ansia che il taxi arrivasse in tempo, da Kos città. Quando arrivò, salii a bordo accanto all’autista per indicargli la strada di casa. Vedemmo Attulla, mia suocera e zia Stavrulla venirci incontro e prendere posto nel taxi. Cominciammo a scendere, curva dopo curva. Io mi preoccupavo per la partoriente e  il nascituro, come se fosse mio. Non sapevo ancora che si trattava di Iannula, che sarebbe nata da lì a poco.  E, forse, chissà, per uno di quei misteri che rendono magica la vita, proprio durante  il tragitto, per quel sentimento che provavo, le trasmisi il virus inguaribile della lettura.



[1] Maurizio Bettini, “Con i libri”, Einaudi, Torino, 1998
[2] John Brown e Livia Livi (a cura di), Hemingway, Feltrinelli, Milano, 1964
[3] A cura di Oreste Del Buono, Moravia, Feltrinelli, Milano, 1962
[4] A cura di Bernard de Fallois, Feltrinelli, Milano, 1962
[5] Serena Fornasiero, Silvana Tamiozzo Goldmann, “Leggere, come capire, studiare, apprezzare un testo”, Il Mulino, 1999

3 commenti:

  1. leggerti, come al solito, è stato un piacere...hai la grande qualità di scrivere nella stessa maniera in cui parli (o parlare come scrivi, scegli tu). Quando leggo quello che scrivi i paragrafi scorrono via velocemente (a prescindere dalla seriosità o meno dell'argomento - mi è sempre successo nel leggere i tuoi libri). La lettura di questo pezzo introduttivo del tuo blog mi ha doppiamente fatto piacere: attraverso il tuo racconto ho rivissuto i begli anni della mia infanzia con nonni simili ai tuoi per svariati motivi e mi si è scaldato il cuore...poi ho scoperto che entrabi abbiamo avuto una madre malata della stessa cosa e nello stesso periodo...unica differenza è che a me più che la lettura (che comunque ho cominciato ad amare da ragazza per conto mio, grazie ad una zia che viveva a Trieste e con la quale passavo i 4 mesi estivi) i miei genitori mi hanno insegnato l'amore per la musica - tutta la musica, di qualunque genere - purchè buona; ed è questa una cosa che mi porto dentro ormai da quasi sessant'anni. Ti prego Diego, scrivi, scrivi, scrivi così io ti leggo, ti leggo, ti leggo

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    1. Grazie, Rita. Anch'io amo la musica, se posso ricambiare.Ma la scrittura è il mio modo di esprimermi. Di respirare.

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    2. lo, e lo fai talmente bene che ti ho chiesto ripetutamente di scrivere....

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