domenica 4 novembre 2012

IL LIBRO DA REGALARE A NATALE A CHI AMA GLI ANIMALI

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 2-11-2012

Il nuovo libro di Giuseppe Pederiali
CUORE DI CANE L’AMORE SECONDO NULA
Una giovane donna e lo spirito dell’animale con dolce malinconia

di Diego Zandel

Scopriamo dalla foto che li ritrae nel risvolto di copertina, che lo scrittore Giuseppe Pederiali ha un cane che si chiama Nula, appartenente alla razza Jack Russell Terrier. Evidentemente,  la compagnia ha generato una comprensibile sorta di empatia  tra i due, che ha portato Pederiali a immaginare quale potesse essere il mondo, visto con gli occhi del suo cane.  E, da scrittore di razza quale egli è, a sua volta, abituato come i Jack Russel Terrier  a scavare sotto terra, nelle tane più profonde, per  stanare tassi e volpi, è entrato nello spirito dell’animale, proiettandolo in una storia divertente, molto dolce e, a tratti, malinconica se non, addirittura, triste, seppur a lietissimo fine, che comunque dà la misura della distanza che separa gli uomini, complicatissimi, dagli animali, innocenti e spontanei. Ci è entrato tanto nello spirito del suo cane da scrivere il romanzo in cui a parlare in prima persona è Nula stessa. Che, in questo caso, diventa però un altro personaggio, anche se suo simile.
La Nula del romanzo vive in una casa borghese, quella dei Ghedini, una villetta di via Sant’Eusebio a Milano. Filippo Ghedini è un giornalista televisivo famoso, sua moglie Maria Carla vince la noi  casalinga conducendo una esclusiva boutique alla moda e spassandola, nel tempo in cui il marito è al lavoro, con un amante, che incontra con la scusa di portare a passeggio Nula, la quale, suo malgrado, diventa anche la testimone degli incontri a letto tra i due. Nula non è che nutra molta simpatia per i suoi padroni. Lo si apprende fin dall’inizio quando questi, dopo averla fatta accoppiare con un puro esemplare della sua stessa razza, scoprono che a nascere sono dei bastardini, molto simili al cane Camillo, del loro vicino di casa. Tutte le idee che s’erano fatti, tra cui quelle di vendere i cuccioli a caro prezzo, saltano, tanto che Filippo, piccato, senza alcun rimorso si sbarazza dei piccoli bastardini, indifferente al dolore di Nula.
Quest’ultima, però,  non è costretta a sopportare il peso di questo mondo arido, tutto esteriore, senza un briciolo di umanità al suo interno: i coniugi Ghedini, per fortuna, hanno una figlia, Maria Luce, detta Lula (nome che darà vita a simpatici teatrini tra il suo soprannome e quello del cane), la quale è tutto il contrario dei suoi genitori. Ragazza dolce e sensibile, ama di puro affetto Lula, con cui trascorre il tempo tra passeggiate e guardando vecchi film in bianco e nero, lontano dagli ambienti viziati della sua classe sociale, tant’è che i genitori se ne lamentano. Fino ad obbligarla a partecipare a una festa del figlio di un loro amico della Milano bene, che per la ragazza sarà paurosamente fatale. Tanto da spingerla, dopo quanto successo, a rinchiudersi ancora di più in se stessa, e gli ignari e supponenti  genitori a correre ai ripari costringendola a una terapia psicanalitica, che rivelerà invece lo spirito sarcastico e vivace, oltremodo sano e intelligente, della ragazza. La quale, con Lula, che è ormai la sua unica compagnia, ha uno scopo non da poco: ritrovare i cuccioli che il padre ha dato via.
La storia si dipana tutta su questi elementi diversi che Pederiali intreccia con la sapienza narrativa che gli è propria, facendo emergere una tenerezza che, proprio perché vista con gli occhi di Lula, ha espressioni di innocenza, da cui emergono, per contrasto, l’infelicità e l’aridità sentimentale di quella parte dell’umanità i cui valori si riducono tutti al denaro, all’apparire, al possesso fine a se stesso, facendo de “L’amore secondo Nula” un romanzo davvero speciale, per tutte le età e, soprattutto, per chi ama gli animali.
Naturalmente, non tutta l’umanità è così negativa come i coniugi Ghedini. La loro figlia Lula, da non confondere con l’amato quadrupede Nula, sta lì a dimostrarlo, al pari della confidenziale cameriera nigeriana Bianca Boateng. Un nome non a caso, questo, uguale a quello del calciatore, a nostro avviso una sorta di cammeo milanista così come si chiamerà Nocerino, l’ispettore di polizia che sequestrerà alcune foto ritenute osè che la ragazza Lula spacciava al parco per tirar su la paghetta che i genitori le avevano tolto per il suo improvviso scarso rendimento a scuola.
                                                                                  Diego Zandel
Giuseppe Pederiali, L’amore secondo Nula, Garzanti, pag. 238, €. 16,40           

sabato 3 novembre 2012

TRE GIALLISTI ROMANI: VERDE, PROIETTI&CRISPO, LUCERI

Uno dietro l’altro escono i gialli  di tre autori romani: si tratta di “La sconosciuta del lago” di Nicola Verde, “Chiunque io sia” della premiata coppia Biagio Proietti e Diana Crispo, e “Le strade di sera” di Enrico Luceri, tutti pubblicati dalla Hobby&Work.
Il romanzo di Nicola Verde “La sconosciuta del lago” si rifà a un caso vero: il ritrovamento del cadavere di una donna decapitata nei pressi del lago di Castel Gandolfo, a pochi chilometri dalla capitale, nel 1955.  L’autore sonda il mistero grazie alla messa in campo di un commissario, Leopardo Malerba, al quale sono stati tolti i panni  dell’eroe  e le stimmate dell’infallibilità per quelli di un uomo con tutti i suoi difetti e ambiguità. Il che lo rende quel tanto antipatico da renderlo un personaggio. Si aggiunga che la storia non è confezionata secondo i canoni della tipica indagine ma attraverso una teoria di capitoli nei quali a rotazione parlano i diversi testimoni che con la donna decapitata hanno avuto a che fare. Il risultato è un giallo non banale che affonda il bisturi nella psiche e nell’animo dell’essere umano con matura sapienza narrativa.
Quella stessa che ci offrono Biagio Proietti e Diana Crispo, ai quali si devono due tra i più grandi successi di tutti i tempi per quanto riguarda gli sceneggiati televisivi: “Coralba” e soprattutto “Dov’è Anna”, per la regia di Daniele D’Anza. 
“Chiunque io sia” prende spunto a sua volta da un vecchio soggetto televisivo “La mia vita con Daniela”, andato in onda, anch’esso con successo, nel 1976, ed ora trasformato in romanzo (e, leggendolo, si avverte la sottotraccia della sceneggiatura). Si tratta di una storia che ti prende fin dall’inizio: una donna si presenta allo studio dell’avvocato Morelli per essere assunta come segretaria, solo che, non appena la vede, l’avvocato riconosce il lei Daniela, la moglie scomparsa otto mesi prima. La donna però afferma di chiamarsi Bianca Rizzi  e non dà segni di riconoscimento dell’uomo né di altri particolari relativi alla vita di Daniela. Su questo equivoco pirandelliano molto bene costruito da Proietti e Crispo si snoda l’intera vicenda che porterà le indagini da Roma, dove è cominciata, a Parigi e a Bruxelles, per poi tornare definitivamente a Roma per lo scioglimento dell’enigma. Che ovviamente lasciamo scoprire, carta dopo carta, al lettore.
Il terzo romanzo “Le strade di sera” di Enrico Luceri  è ambientato invece in Umbria, in un paesino inventato, in cui il commissario Michele Forestieri è andato a trascorrere  la convalescenza  in seguito a un gravissimo incidente capitatogli nel corso di un’operazione di polizia che aveva a che fare con l’arresto di un pedofilo assassino di tre bambini. Il commissario, appena rimessosi dalle sue ferite, anela a ritornare a casa dalla propria famiglia, ma viene trattenuto dalla visita di una donna disperata alla quale è stata uccisa la figlia, una bambina della stessa età della figlia del commissario. L’assassino non è stato mai trovato. I carabinieri del luogo, guidati dal maresciallo Cimicchi, dopo due anni di indagini non hanno cavato un ragno dal buco ed anzi sembrano sempre più rinunciare a risolvere il caso. Il commissario Forestieri, mosso a pietà, accetta. E dà avvio a una serrata indagine personale che non può non incontrare il disappunto del maresciallo Cimicchi che lo accusa di illudere inutilmente la donna.  Ma il commissario Forestieri gli dimostrerà il contrario. Un giallo quest’ultimo che, al contrario dei primi due, percorre le piste più classiche del genere e che conferma le doti narrative di questo giovane autore che nel 2008, con “Il mio volto è uno specchio”, ha vinto il Premio Tedeschi per il miglior giallo inedito poliziesco dell’anno, guadagnandosi poi la pubblicazione nei prestigiosi Gialli Mondadori.
                                                                                 
Diego Zandel

Nicola Verde, La sconosciuta del lago, Hobby&Work, pag. 293,€. 18,00
Biagio Proietti&Diana Crispo, Chiunque io sia, Hobby&Work, pag. 221, €. 16,50


Enrico Luceri, Le strade di sera, Hobby&Work, pag. 231

mercoledì 11 luglio 2012

LADRO DI LIBRI: "IO SONO IL LIBANESE" DI GIANCARLO DE CATALDO (EIN...

LADRO DI LIBRI: "IO SONO IL LIBANESE" DI GIANCARLO DE CATALDO (EIN...: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-7-2012 ROMANZO CRIMINALE UN PASSO INDIETRO “Io sono il Libanese” di De Cataldo di Diego Zandel Vi ricorda...

"IO SONO IL LIBANESE" DI GIANCARLO DE CATALDO (EINAUDI STILE LIBERO)

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-7-2012
ROMANZO CRIMINALE
UN PASSO INDIETRO
“Io sono il Libanese” di De Cataldo
di Diego Zandel
Vi ricordate il prologo di “Romanzo criminale”, il capolavoro di Giancarlo De Cataldo?  Cominciava con il pestaggio di quattro “pischelli” a un uomo che “qualche anno prima, solo a sentire il suo nome, si sarebbero sparati da soli, piuttosto che affrontare la vendetta”, perché quell’uomo aveva fatto parte della banda della Magliana. Tant’è che, quando incredulo, si alza dalla polvere grida “Io stavo col Libanese!”. Cioè con colui che della banda della Magliana è stato l’ispiratore, il capo.
Ebbene, ora De Cataldo torna su questa figura, cogliendola all’inizio della sua carriera criminale fino a quando sostanzialmente ha inizio “Romanzo criminale” con il sequestro del barone Rosellini, e lo fa con un romanzo asciutto, veloce, dalla presa immediata “Io sono il Libanese”, edito da Einaudi Stile Libero.
Incontriamo il Libanese in carcere per un traffico di armi, preso in simpatia da un boss camorrista Pasquale  ‘o Miracolo, del quale si trova a salvare il prediletto nipote Ciro, in carcere pure lui, da un’esecuzione da parte di una banda rivale. La gratitudine del camorrista, appartenente alla corte di don Raffaele Cutolo,  ‘o Professore, si accompagna anche alla inespressa richiesta di sudditanza. Ma il Libanese non è il tipo. Da tempo, con i suoi amici di lungo corso, Dandi, Bufalo, Scrocchiazeppi e poi gli altri personaggi che entreranno a far parte della epopea della banda, il Libanese riflette sulla necessità di darsi una struttura di tipo “militare”, con una gerarchia, una cassa comune e quant’altro secondo gli schemi della criminalità organizzata. Nella sua Roma infatti non esiste tutto ciò, come tutti i romani sono “anarchici, individualisti, allergici alla disciplina”. E lo scotto che si paga è sempre quello di ritrovarsi, dopo un colpo, “di nuovo al palo, a spremersi le meningi per campare la giornata dell’indomani”.
L’occasione gliela offre Pasquale ‘o Miracolo con una proposta: c’è una nave che partirà con un carico di droga, il Libanese può entrare nell’affare con 300 milioni di lire. Il resto poi verrà da se: il Libanese e i suoi “compagni, i suoi fratelli, la sua gente” diventati una banda organizzata , con quella “roba” inonderà la capitale, mettendo all’angolo tutti i piccoli trafficanti il cui (piccolo)  potere è sparso tra i vari quartiere. Sarà la realizzazione del suo sogno: prendersi Roma ed essere loro dettare legge, respingendo, tra l’altro l’assalto sia da parte della camorra che dei marsigliesi che puntano allo stesso obiettivo.
Trovare pertanto i 300 milioni che gli consentono di entrare nell’affare sarà la prima preoccupazione del Libanese. Ed è nel corso di questa caccia, che si nutre di continue delusioni, che l’uomo fa un incontro che avrebbe potuto cambiargli la vita. L’incontro con una ragazza bellissima, una Dea, come la vede, Giada, figlia di una ricca famiglia borghese, studentessa universitaria e, in quel tempo di  ribellioni sessantottine, fanatica militante di gruppi estremisti di sinistra che, contraddittoriamente al suo stato sociale, inneggiano al potere proletario.  E nel Libanese, nella sua vita, nella sua storia, Giada, scopre uno straordinario rappresentante  di quella classe. La scintilla tra  i due scoppia quando il Libanese la salva da un coma per overdose. Lei si fa, così come un suo amico, che poi si scopre essere gay,  anche lui di famiglia ricca, uno che odia il padre e che, in qualche modo, ne favorisce il sequestro da parte di Libano e dei suoi compagni. Un sequestro che avrà risvolti  comici e deludenti e che spingeranno ancor più il Libanese ad affinare la sua professionalità.  Ma la strada è lunga e difficile perché il Libanese,  nonostante i sogni  di gloria, si perde con facilità, basta un tavolo verde, un’occasione facile, quelle tentazioni che lo accomunano più a un ladruncolo o rapinatore di strada che al capo di una banda che vuole conquistare il controllo di una città. Tanto da perdere così anche Giada. Ma la lezione evidentemente gli servirà.
Il romanzo conferma le grandi doti narrative di De Cataldo e la competenza, evidentemente frutto dell’altro suo lavoro di giudice, dell’ambiente, del suo linguaggio, delle sue crude leggi  e, considerata la spietatezza che lo circonda,  delle psicologie necessarie a sopravviverci. Anche se, proprio ammirando le  sue straordinarie qualità, non lo vorremmo ostaggio della banda della Magliana.
       
Diego Zandel
Giancarlo De Cataldo, Io sono il Libanese, Einaudi Stile Libero, pag. 131,  €.13,00         

domenica 1 luglio 2012

ESSERE E NON ESSERE BOB LANG

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 29-6-2012

L’ultimo thriller è anche una metafora dello scrivere

Essere o non essere Bob Lang questo è il problema
Zandel: la finzione e la realtà

di Luana Trapè

Essere Bob Lang, un affascinante e audace giornalista, e nel contempo non esserlo, perché si è Marco Molina, l’altro protagonista che sta scrivendo un romanzo su di lui. Questa è la sostanza della storia, anzi delle due storie che scorrono nell’ultimo thriller di Diego Zandel, il quale, come avviene nelle opere precedenti, ‘impasta’ i personaggi con il materiale vivo della sua esperienza,  “ci mette i suoi ricordi”, i libri amati, le visioni, gli odori, le persone conosciute nei luoghi cardine della sua vita: Roma e l’isola di Kos, con qualche puntata a Cipro.
I due protagonisti sono esattamente agli antipodi: Marco Molina “che non sa nemmeno andare in moto”, conduce una vita tranquilla e confortata dagli affetti familiari, ma il suo lavoro di impiegato frustrato lo angustia, e così sogna di diventare ricco e famoso scrivendo un bestseller: il protagonista è Bob Lang, sempre in giro per il mondo tra pericoli e belle donne; il suo nome echeggia “nel buio come uno sparo”. Molina è certo che per raggiungere il suo scopo dovrebbe architettare una storia di misteri, oscuri traffici, mafia, contrabbando, intrighi internazionali, ma sa anche che si deve scrivere solo su quello che si conosce. E che cosa conosce lui? “Amorazzi e gelosie, invidie e frustrazioni, rivalità e dispetti, pettegolezzi, tiri mancini … i rimbrotti del capoufficio, le proteste dei clienti, i conti che non sempre tornano...”
Hemingway dice: Non devi scrivere, se non sai scrivere. E lui “sa davvero scrivere? O è solo l’esperienza che gli manca? … Per lui  la vera vita da raccontare è quella al di là del vetro antiproiettile delle porte blindate accanto a Bob, non a personaggi scialbi come i suoi colleghi.” Ma come cavarsela in situazioni spinose che ha creato lui stesso? Come descrivere focosi amplessi, che non ha mai vissuto? E, nel caso ci riuscisse, che cosa penserebbe di lui il figlio se un giorno leggesse il suo capolavoro?
Il suo creatore Zandel, mentre osserva (e inventa) con affettuosa e complice ironia i suoi incerti tentativi di “essere Bob”, gli dimostra che in realtà è possibile scrivere un libro di successo anche narrando piccole vite come la sua, e conduce abilmente le due storie parallele, e totalmente diverse nell’atmosfera, nel registro e nel ritmo narrativo. Pagina dopo pagina, il lettore si convince che la vita di Marco sia “vera” - inventata invece quella di Bob -, cosicché viene colto di sorpresa quando  le due vicende si intrecciano e si sovrappongono quasi per volontà autonoma (grazie anche all’accorto uso dei flash back) e i personaggi passano dall’una all’altra diventando persone, o viceversa.
 Lo sguardo del narratore è particolarmente attento alla creazione del doppio palcoscenico sul quale si svolgono le storie: le città descritte nei loro angoli più segreti; gli interni curati nei minimi particolari, perché quando il personaggio entra in una stanza - dice Zandel - l’autore deve sapere tutto quello che c’è, anche se  poi non lo descriverà. 
“Essere Bob Lang” non è soltanto un’opera godibile che avvince il lettore fino al colpo di scena finale: è anche un ottimo vademecum per un esordiente, al quale Zandel, oltre a ottimi consigli “del mestiere”, offre i propri modelli letterari, come Hammett, Chandler, Cechov, Green… E per finire, in un’icona trafugata da un antico monastero della Tessaglia - raffigurante S. Giorgio vittorioso sul drago - una preziosa metafora del romanziere alle prese con la scrittura.
Luana Trapè

sabato 30 giugno 2012

LADRO DI LIBRI: $ - FORMAZIONE DELLA BIBLIOTECA

LADRO DI LIBRI: $ - FORMAZIONE DELLA BIBLIOTECA: 4 – FORMAZIONE DELLA BIBLIOTECA Non ricordo com’erano ordinati i libri nella mia biblioteca quand’ero ragazzo. Probabilmente stavano in...

$ - FORMAZIONE DELLA BIBLIOTECA

4 – FORMAZIONE DELLA BIBLIOTECA

Non ricordo com’erano ordinati i libri nella mia biblioteca quand’ero ragazzo. Probabilmente stavano insieme per volumetria, per dimensioni fisiche, dal più alto al più piccolo e, naturalmente, senza distinzione di genere, trattandosi solo di narrativa. Non ricordo neppure dov’erano sistemati, se c’era un particolare scaffale. E’ un dato di fatto, però, che i libri, già allora, cominciavano a occupare spazio. Si rese, pertanto, necessario, a un certo momento, predisporre, nella mia cameretta, una  libreria. Così i miei genitori ne ordinarono una al falegname.
Si decise per un mobile unico, che servisse anche da armadio. Il falegname costruì  un mobile alto, di noce chiara, composto di tre parti uguali, una delle quali consisteva nell’armadio vero e proprio a due ante, per i vestiti, e le altre due parti alla libreria, i cui scaffali, nell’ordine di cinque da una parte e cinque dall’altra, poggiavano su un paio di canterani, chiusi da sportelli. Il mobile occupava quasi interamente una parete, fatto salvo, da un lato, lo spazio necessario all’apertura della porta e, dall’altro, accanto alla finestra, a una poltroncina di similpelle, verde, che sarebbe diventato il mio angolo lettura.
Crescendo, acquistando sempre nuovi libri, quegli scaffali risultarono a un certo punto insufficienti. Tanto da rendere necessaria un’altra libreria, che chiesi ai miei genitori come regalo per il mio diciassettesimo compleanno. Allora, già con la vocazione dello scrittore e il mito di Hemingway  in testa,  tra i tanti libri di lui che possedevo, comprese  diverse biografie, mi ero imbattuto in uno contenente alcune sue fotografie. Una di esse, che solo recentemente - per averla vista esposta alla libreria Feltrinelli in Galleria Alberto Sordi a Roma - ho saputo essere di Inge Feltrinelli, ritraeva lo scrittore addormentato sul pavimento, con la testa poggiata sul cuscino di una poltrona  e, sullo sfondo, una libreria a mezza altezza colma di libri. In altre fotografie avrei ritrovato quella stessa libreria, sul ripiano della quale Hemingway aveva piazzato la macchina da scrivere, sulla quale scriveva stando in piedi. Fu quella libreria che indicai al falegname come aggiunta alla prima. E, naturalmente, anch’io, per un certo tempo, quando quella libreria entrò in casa, sistemai su di essa la mia Olivetti 22, fino a quel momento posata su una scrivania, tutta cassetti, che mio padre aveva prelevato dai mobili in disarmo del suo ufficio all’Adriatica navigazione. E, naturalmente, presi a scrivere anch’io, d’allora, seppur per un breve periodo, in piedi.
Per diversi anni queste  due librerie mi hanno accompagnato  nella vita, arredando prima la mia cameretta di ragazzo e poi, dopo essermi sposato, lo studio della mia attuale casa, non senza però prima aver provveduto a guadagnare, nella libreria armadio, altri cinque scaffali ottenuti riducendo l’armadio alla misura dei due canterani.
Più tardi, quelle due librerie, esclusa la hemingwayana che tuttora occupa una mezza parete del corridoio di casa,  sarebbero state, negli anni, sostituite da tutta una serie di librerie che sarebbero andate a tappezzare  di libri le pareti, tutte, del mio studio e, in parte, del mio appartamento, andito, corridoio e soggiorno.
Né poteva essere altrimenti: i libri che giornalmente entravano in casa, e continuano a farlo, sono davvero tanti.
Questo, realisticamente, è da imputare alla mia attività pubblicistica, di recensore di libri e di attualità letteraria, che, dall’inizio degli anni Ottanta è aumentato progressivamente grazie alla mia sempre più intensa collaborazione con i giornali, in particolare con il quotidiano romano “Paese Sera” e, quindi, “L’Unità”,  così entrando nel giro degli uffici stampa delle case editrici, pronti a mandarmi ogni tipo di novità perché ne scrivessi.  Non avendo mai smesso di farlo il flusso non si è  arrestato. Naturalmente, a questi vanno aggiunti quelli che io, con una certa frequenza acquisto personalmente, non sapendo, di fronte a un titolo o a un autore interessante, trattenermi dal farlo ogni volta che entro in libreria o mi fermo a una bancarella. Un vizio che mi porto dietro, più forte di me e che sicuramente va a incidere negli spazi di casa e, come non manca ogni volta di sottolineare mia moglie, nel bilancio famigliare. Credo che ora il numero di libri che, complessivamente,  possiedo arrivi  a circa 2000 (potrebbero essere di più, ma molti li ho regalati o venduti) e la loro sistemazione in casa non è l’unico problema.
Infatti, un altro è che una massa di libri del genere, oltre a richiedere spazi adeguati,  impone un ordine e un relativo sistema di classificazione che faciliti il ritrovamento dei titoli e degli autori, compito altrimenti arduo. Le soluzioni che, a riguardo, ho adottato nel corso degli anni sono state le più varie. Non è stato semplice trovarne una definitiva (alla quale, comunque, come si vedrà non sono ancora del tutto pervenuto).
All’inizio, e per alcuni anni, l’ordine è consistito in una semplice divisione tra generi - narrativa, saggistica e poesia - i cui volumi erano divisi per casa editrice e, quindi, per collane. L’uguaglianza dei volumi nell’altezza, nella dorsatura e nella grafica di copertina, premiavano la visione estetica dell’insieme, ma anche, spesso, partendo dalla conoscenza di quale era l’editore di un certo autore od opera, di rintracciare subito il libro. Ciò era possibile in virtù della sopravvivenza, almeno fino agli anni Ottanta, di un patto di fedeltà tra editore e autore che le impietose leggi di mercato oggi hanno rotto, per cui d’allora l’editore non fa più lui il mercato con le sue proposte di titoli e le sue cosiddette scuderie di autori, bensì vi si è sottomesso, puntando  più su una presunzione di commerciabilità  di un titolo o di un autore (quasi sempre celebrato dalla televisione o dal calcio) che su una propria politica editoriale all’insegna della qualità, del gusto,  dell’esperienza e della continuità autoriale (ad esempio, lo scrittore istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini vendeva poco, ma Einaudi non esitava a continuare a pubblicare i suoi libri).
Presunzione di vendita, perché per i libri non è mai data per scontata e varia da titolo a titolo, valendo per essi la stessa affermazione che François Truffaut ha espresso per i film, e cioè che “non sono scatole di conserva. Come gli uomini, devono essere presi e considerati uno per uno”.  L’errore gravissimo, a riguardo, è stato invece quello di affidare  la politica editoriale, e quindi le scelte dei libri stessi, alle mani del marketing che ritiene sia possibile trattare i libri come qualsiasi altro prodotto di mercato.  Interessanti, a riguardo, i ricordi di Evaldo Violo, direttore per trent’anni della BUR Rizzoli, che nel suo libro intervista con Marco Vitale “Ah, la vecchia BUR!” (Edizioni Unicopli, 2011) ricorda: “Il direttore del marketing, quello che ha rivoluzionato il modo di lavorare alla RCS era un ingegnere. Una persona a modo e simpatica, ma che non sapeva niente di libri. Oggi credo che lavori in un’azienda di sanitari, ma per lui è la stessa cosa: il marketing funziona dappertutto”. E, naturalmente, in questo caso ci scappa una bella risata.
Ma non era solo la Rizzoli ad essere guidata così. Anche la Mondadori non scherzava. Personalmente, il segnale, in qualche modo lo ebbi quando vidi che Mario Soldati, autore fin dall’inizio della Mondadori, si vide rifiutare il suo libro di articoli sul “mundial” del ’82, dopo che  - per quel che ricordo della polemica - del suo bellissimo romanzo “L’incendio”, pubblicato da Mondadori nell’81 con una tiratura di 80.000 copie, si vendettero “solo” 50 mila e 30 mila restarono sul groppone. A nessuno venne in mente che l’errore lì, semmai, fu dell’editore stesso (magari del marketing!). E Soldati, per ripicca, da quel momento pubblicò sia gli articoli sul “mundial” che  i romanzi  successivi con Rizzoli (e oggi solo Sellerio riporta alla ribalta i suoi straordinari romanzi).
Ci furono a riguardo altri cambiamenti di squadra. Soltanto tra i miei scrittori più amati, ad esempio, in quegli stessi anni Stefano Terra, autore che aveva un rapporto privilegiato con Bompiani passò – forse per un convincimento del suo agente letterario Erich Linder -  a Rizzoli, con il quale pubblicò due romanzi “Le porte di ferro” e “Albergo Minerva” prima di tornare a pubblicare, definitivamente, con Bompiani. Fu per una volontà di Terra stesso, per nulla contento del trattamento della Rizzoli, a tornare con il vecchio editore. A spingerlo a fare il passo indietro fu anche l’emergere devastante dell’affare P2 di Licio Gelli che avrebbe portata la Rizzoli al fallimento, favorendo la fuga di molti altri autori.
Ciò vale anche per gli autori stranieri. Sempre tra i nomi da me amati, ad esempio, Lawrence Durrell, e addirittura relativamente a una sua opera unitaria come il “Quartetto di Alessandria” che, seppur composta da quattro romanzi autonomi, Justine, Balthazar, Mountolive e Clea, ha avuto i primi due titoli pubblicati da Longanesi e i due successivi da Feltrinelli. Per non parlare poi  degli altri suoi libri sparsi tra diversi editori, da Giunti a Bompiani alla Sugar, da Fazi al Saggiatore e, infine, a Einaudi, che ha ripubblicato il Quartetto.
Ma proprio l’esperienza con Lawrence Durrell e Stefano Terra, così come con altri autori che ho amato e raccolto, da Eric Ambler  (Garzanti, Mondadori, Rizzoli, Adelphi) a Fulvio Tomizza (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Marsilio)  ed altri, hanno messo in evidenza i limiti della disposizione della biblioteca per case editrici e collane.
Ecco che, a quel punto, ho capito che l’unico modo per mettere ordine a tutto era sistemare i libri, oltre che per genere,  per stretto ordine alfabetico di autore. Mi sono dato pertanto da fare in questo senso, un lavoro che, dato il numero dei libri, mi ha preso diversi giorni. Ho considerato questo  un passo fondamentale, anche se poi ho dovuto constatare che non era sufficiente, mentre anche dall’esperienza altrui ricavavo che, pur sembrandolo, non rappresentava, da sola, una sistemazione ottimale. Almeno non per tutti, presentando problematiche di altro genere.
Ad esempio, lo scrittore spagnolo Jesus Marchamalo  nel suo “Toccare i libri”  racconta che per alcuni colleghi come, ad esempio, Susan Sontag “era intollerabile che Platone e Pynchon potessero condividere lo stesso scaffale” e pertanto, invece dell’ordine alfabetico,  suggeriva  “un rigoroso ordine cronologico cominciando da Aristotele, per esempio, per finire con David Leavitt”. Però è anche vero, sottolinea Marchamalo, che quest’ordine presuppone una conoscenza, almeno sufficiente, della storia della letteratura per evitare confusioni, tanto da ammettere egli stesso che farebbe “una gran fatica a decidere tra Maupassant e Poe: francamente non saprei proprio dire chi dei due sia più giovane, e lo stesso tra Rimbaud e Zola”.
In alternativa, si potrebbero disporre i libri, sempre in ordine alfabetico d’autore, ma sistemati in scaffali dedicati alle diverse  letterature di appartenenza. E,  magari, all’interno di questo schema, in sottordine, rispettare appunto, chi lo preferisce, l’ordine cronologico al posto di quello alfabetico, anche se quest’ultimo, dal punto di vista pratico, ritengo personalmente  sia più  efficace.  Anche se m’è capitato, ad esempio, di cercare un certo libro, ma di non ricordarmi il nome dell’autore e, pertanto, avere qualche difficoltà a trovarlo.
Abbastanza recentemente, ad esempio, proprio per scrivere questo libro, cercavo l’autrice de “La lettrice”, che ricordavo anche essere francese e pubblicata da Guanda. Non c’era verso di ricordarmi il nome (in questo caso, forse, perché era troppo semplice). Ho dovuto pertanto  prendere la scala e cominciare a scorrere tutti dorsi dei libri per cercarlo, partendo appunto dalla lettera A che, essendo capolettera, si trova sugli scaffali alti. Per fortuna,  l’ho trovata subito, trattandosi di cognome: Annie, e di nome: François. Ma questi inconvenienti si incontrano spesso.  
Questo e altri aspetti relativi al  problema del  facile reperimento dei  libri mi hanno spinto alla conclusione che la formazione di una biblioteca personale deve avvenire solo in parte seguendo schemi generali, per il resto, più specificatamente,  corrispondere a quelli che sono gli interessi di chi la realizza e possiede, per meglio essere in sintonia con le proprie personali esigenze. Da qui la decisione di suddividere la mia biblioteca oltre che nei tre generi tradizionali – narrativa, saggistica, poesia – in ulteriori  suddivisioni all’interno dello stesso genere, estraendo da ciascuno di essi quei libri e autori verso i quali vanno i miei interessi personali, di piacere e di lavoro.
Così è avvenuto che, dopo una  prima ulteriore suddivisione della saggistica per aree di interesse generale e generico (storia, politica, filosofia, spirito, psicanalisi, attualità) e per la narrativa  a una  suddivisione tra narrativa italiana, narrativa straniera e gialli, solo  più recentemente, dopo la ristrutturazione di una parte della casa, sono pervenuto a una soluzione apparentemente definitiva, aggiungendo tre sezioni che riguardano i miei interessi e gusti  personali: letteratura e storia istro-giuliano-fiumana,  letteratura e storia della ex Jugoslavia, letteratura e storia della letteratura neogreca.  Ci sono arrivato, pertanto, per approssimazione continua ed esperienza accumulata nel corso degli anni: per molti anni, infatti, sia la narrativa, così come la saggistica e la storia relativa oggi alle rispettive sezioni,  erano reperibili nei macrosettori. Il che però, francamente, ricorrendo più spesso a queste che ad altre materie e autori, disturbava. Così  invece tutto si è semplificato, tanto da giudicarla, ai miei fini, la soluzione ottimale.
Ma è definitiva? Devo dire ancora che la risposta è no. Mi frulla in testa, infatti, un’altra idea: quella di estrarre dall’ordine alfabetico e, quindi, dalle singole sezioni quelle che rappresentano le collane storiche dell’editoria italiana, collane ormai chiuse, che raccolgono autori e opere che hanno fatto la cultura del secondo dopoguerra. La mia idea sarebbe quella di raccogliere in particolare due collane rimaste memorabili come “I Delfini” della Bompiani e “La Medusa”  della Mondadori.
Della prima, una tra le più belle e significative del dopoguerra, conservo diversi autori e romanzi da “Lord Jim” di Conrad (la seconda edizione del 1963), pur avendo comprato i due volumi Bompiani che contengono, tra gli altri, questo romanzo, mentre, proprio per aver comprato il volume delle “Opere” di Camus, dei Classici Bompiani, ho dato stupidamente via “Lo straniero”.  In compenso, della collana, posseggo diversi romanzi Cronin, Caldwell, Steinbeck,  il Patti de “Il punto debole” e il Piovene di “Lettere di una novizia”, ma anche, per tornare a Stefano Terra, il suo “La fortezza del Kalimegdan”, numero 231 della collana, uno degli ultimi. La grafica di copertina, anzi della sovra coperta, della collana consiste in un fondo dal colore diverso per ogni titolo, con al centro, in un ovale, un disegno, di Maria Luisa Gioia o Giovanni Mulazzani o, addirittura, una fotografia, che in qualche modo richiami la trama.
Tutto il contrario della mondadoriana  Medusa,  passata alla storia per la copertina verde, lineare, che incornicia il fondo bianco sul quale sono riprodotti nome dell’autore e  titolo del libro mentre al centro emerge la testa della medusa.
Di questa collana ho molti titoli, da quel “Per chi suona la campana” di Hemigway, regalatomi dalla zia triestina a “Quaderni di guerra del sergente Costula” del greco Stratis Myrivilis, di cui ho proprio la prima edizione del 1965, a uno degli ultimi romanzi della collana “Ricatto internazionale”, numero 534, dell’amato Eric Ambler. Da qualche tempo, ho deciso di procedere alla raccolta dell’intera collezione sia dei Delfini che della Medusa, acquisendo i volumi via via che mi imbatto in essi girando tra le bancherelle e le librerie dell’usato senza però farne un’ossessione, quella propria e folle dei collezionisti.
Un’altra collana che  meriterebbe  essere  raccolta è quella della BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli, quella vecchia, originale, grigia con i nomi dell’autore e i titoli in bodoni, che rappresentava la summa della cultura tradizionale. Su di essa, Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani e noto bibliofilo, ha scritto un memoir in cui racconta l’avventura che l’ha portato a mettere insieme, uno ad uno, tutti i volumetti che la compongono. Personalmente, pur possedendo ancora qualche volume della collana, non me la sento però di imitarlo.
Sempre della Rizzoli, piuttosto, e vedrò se aggiungerla alle altre imprese,  mi stuzzica la collana La Scala, limitatamente ai volumi le cui copertine godono della grafica astratta a firma di Dagrada. Di questa conservo, tra gli altri, il Bevilacqua di “Questa specie d’amore”, che mi era stato regalato da alcuni amici per il mio diciottesimo compleanno, così come “La cosa buffa” di Giuseppe Berto, che porta la dedica di mio padre “Al mio caro Diego, con amore, papà”, Natale 1966,  e  la dedica dello stesso Berto, per il quale stravedevo, e papà lo sapeva. Lo sapeva anche Anna, che più tardi sarebbe diventata mia moglie, che mi regalò il capolavoro di Berto “Il male oscuro” (pubblicato, però, in una collana a parte). E proprio alla presentazione a Roma di quest’ultimo titolo ero andato con tutti i  libri di questo scrittore sotto il braccio per vedere e ascoltarlo e poi farmi fare la dedica, che infatti compare nella pagina successiva a quella in cui c’è quella di Anna.
Ci sarebbero altre collane, belle e unitarie nella grafica così come nella idea editoriale che meriterebbero di essere raccolte: penso a “I Narratori Feltrinelli”, che rappresentava negli anni sessanta la narrativa sperimentale, d’avanguardia, nata con il Gruppo ’63, distinta graficamente in due linee, una sotto la quale si raccoglievano prevalentemente i narratori italiani e un’altra quelli stranieri.  La Narratori a prevalenza italiani era una collana molto originale, pur nella sua estrema semplicità compositiva: copertina cartonata, senza sovracoperta, di colore diverso per ogni titolo, che si poteva leggere in alto a corpo di scatola così come il nome dell’autore in basso, mentre quella straniera aveva la sovracoperta con la foto dell’autore in bianco e nero e il suo nome in corsivo accanto al titolo a corpo di scatola. Uscirono qui i due libri “Mountolive” e “Clea” che mi fecero conoscere Lawrence Durrell, autore le cui pubblicazioni avrei seguito per tutta la vita, non solo in italiano ma anche – se capitatemi sotto mano – in francese e in inglese.
Ma  se facessi ciò ritornerei troppo indietro come classificazione, ai primi tempi quando la mia biblioteca era, appunto, divisa per editori e collane, con gli inconvenienti che ho detto. Se sarà, ma resto ancora e sempre nel dubbio proprio per questi motivi, mi limiterò a I Delfini e alla Medusa. Se sarà, in quel caso è chiaro che un volume come “I quaderni del sergente Costula” di Myrivilis dovrà trasmigrare dalla sezione neogreci in cui si trova per prendere il suo posto con il numero 497 sugli scaffali Medusa, così come “Cristo di nuovo in croce” di Nikos Kazantzakis il 361, lasciando orfani gli altri titoli, anche in inglese e francese, che ho di questo autore nella sezione greca. Per i Delfini il problema si porrà per Terra, per Caldwell, per Cronin e così via.
Ne vale la pena?  Non è che a furia di suddivisioni si rischia  una nuova dispersione? Già i miei figli, abituati per anni a trovare gli autori che preferiscono al loro posto nell’ordine alfabetico, lamentano ora una certa difficoltà a orientarsi.
Forse solo disponendo di un database, con tutti gli elementi: autore, titolo, editore, categoria, argomento. Questo, però, eventualmente  dovevo farlo fin dall’inizio, ora si renderebbe molto oneroso in termini soprattutto di tempo. Anche se conosco chi l’ha fatto, come Raffaele Nigro, che ha predisposto il tutto per una futura donazione, e Andrea Kerbaker, bibliofilo appassionato, che ha numerato ogni volume della sua biblioteca, dal numero 1 al 10.000 ( sul quale ultimo ha scritto un romanzo,  intitolato, appunto “Diecimila – Autobiografia di un libro”, edito da Frassinelli), anche se quel numero, c’è da immaginare, è più che superato, visto che il libro è stato pubblicato originariamente nel 1999 da Scheiwiller.
Per ora, le uniche due collane che si sono fatte da se e risultano separate dalla biblioteca così come l’ho finora concepita sono quelle dei classici greci e romani, contenuti  nella collana dei Meridiani (cover rossa), che ho completa e la più recente “I classici dell’avventura” del Corriere della sera, acquistati, gli uni e gli altri, in edicola settimanalmente. Mentre mi sono liberato dei doppioni dei classici greci e latini (massimamente della BUR diretta da Evaldo Violo) non ho ancora proceduto a eliminare i doppioni dell’avventura, che farò quanto prima. E sarà l’occasione buona per ripassare ancora una volta lungo i scaffali, il che rappresenta un grande piacere, richiedendo l’operazione una nuova sistemazione e riavvicinamento tra i titoli. Infatti,
la presa fisica dei libri, gli spolveramenti, accompagnati immancabilmente dalla rilettura di certi risvolti o quarte di copertina, anche di qualche pagina interna o dell’indice, mi aiutano a entrare di nuovo in contatto con i singoli testi, e non di rado con non poca sorpresa: un libro che pensavo di non avere e che invece ho già, oppure sapevo di averlo ma, nello scorrere il risvolto e trovandolo meritevole di interesse, mi riprometto di leggerlo quanto prima, decidendo così, come se si trattasse di un nuovo acquisto, di inserirlo nelle letture in programma per il breve (anche se questo tempo breve poi, inevitabilmente, si allunga e qualche libro si trova a prendere o a riprendere, intonso, la via degli scaffali).
Comunque, quella della biblioteca e della sua formazione, sia per ragioni visive che tattili, fisiche, è un’esperienza  unica che l’elettronica, pur con i suoi tanti pregi, non potrà mai dare, anche se è indubbio che, più i libri sono tanti, più si necessiti di quei supporti multimediali che, con pochissimi comandi, ti consenta di arrivare direttamente a un autore, a un’opera o pagine di essa.
Il mio amico Franco Paolini,  purtroppo recentemente scomparso, che è sempre stato un patito dell’elettronica, aveva idee chiare a riguardo: “Io ho tutta la letteratura italiana in cinque CD”  mi aveva detto “ e in altri cinque CD quasi tutta la poesia del mondo. Certo, non sono da leggere come si fa con i libri. Ma queste opzioni informatiche sono utilissime per la consultazione. Non ti è mai capitato di non ricordare un verso o un passo di un autore? Ebbene, con i CD non ci vuole molto: il tempo di accendere il computer. E inoltre riescono pure a soddisfare la necessità di ‘possesso’.”
Non so quanto sia vero. Personalmente ritengo che soltanto se uno possiede fisicamente il libro e, individuato, può andare a prenderlo, stringendolo tra le mani, prova quella gioia che nessun altro supporto, tanto meno informatico, può dare. E’ come fare l’amore con una donna virtuale e una in carne e ossa. Credo che i sensi, in quest’ultimo caso, partecipino molto di più.     
In questo senso,  però, se i libri sono davvero tanti, non si rischia di disperdere l’obiettivo per cui compriamo o, comunque, ci impossessiamo dei libri, ovvero di leggerli?  A riguardo, lo scrittore francese Georges Perec, in un libretto intitolato “Brevi note sull’arte e il modo di riordinare i propri libri”,  risolve un po’ il problema  rispondendo a una sola domanda: a quanti libri limitare la propria biblioteca di casa dando per scontato che chi li ama continuerà a comprarli finché vive o, se è uno scrittore o un critico, anche a riceverli dalle case editrici? A riguardo Perec porta l’esempio di un suo amico, che, secondo certi calcoli, ha stabilito un tetto di 361 opere. E’ importante la distinzione tra opere e, ad esempio, libri o volumi, perché ci sono opere – pensiamo alla “Recherche” di Proust o lo stesso “Quartetto di alessandria” di Durrell - che  risultano complete in più volumi. E questo è un dettaglio che viene molto ben analizzato da Perec, ma anche dal già citato Marchamalo, il quale sull’argomento dedica un intero capitolo, partendo dalla considerazione che nel mondo ogni 30 secondi viene pubblicato un libro. Da qui l’impossibilità di tenere tutto e l’importanza di disfarsene in gran parte per concentrarci, come alla fine sono io stesso pervenuto, sui libri più in sintonia con noi, con i nostri interessi, con i nostri piaceri e i nostri autori preferiti, lasciando poi che tutto il resto sia sottomesso a una sorta di legge che faccia giustizia sommaria di quei libri e quegli autori che non rientrano in questo schema.  
Anche se, ovviamente, non sono solo questi i libri che io ho salvato e conservo.
Però, a riguardo, una regola per il futuro me la sono data: il numero di libri in casa non dovranno essere di più degli scaffali che li contengono. Nel senso che non farò nuove librerie e i libri nuovi che eventualmente entreranno prenderanno il posto di altri, o saranno gli stessi nuovi libri entrati in casa ad andarsene, secondo criteri di scelta personale.  Per fortuna, come ho detto, periodicamente, in occasione dello spolvera mento dei libri, mi trovo a riordinarli e questa è una grande occasione per stabilire di quali libri liberare gli scaffali predisponendo lo spazio ad altri. Libri che prenderanno la strada delle bancarelle, delle librerie dell’usato. I libri che so non leggerò più, che non mi ispirano la voglia di leggerli (perché talvolta basta questa, la speranza che un giorno lo farò, a trattenerli). Resteranno alla fine solo quelli che sento come parte del mio mondo, quasi un’estensione di me.







domenica 10 giugno 2012

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-6-2012SE FOSSE DIO...

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-6-2012
SE FOSSE DIO...
: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-6-2012 SE FOSSE DIO SAREBBE ATEO Scritti Postumi di Giuseppe Bonura di Diego Zandel Uno scritt...
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 10-6-2012

SE FOSSE DIO SAREBBE ATEO
Scritti Postumi di Giuseppe Bonura

di Diego Zandel

Uno scrittore, quando muore, lascia sempre dietro di se opere, materiali, che andrebbero irrimediabilmente perduti  se non ci fosse qualcuno che si prendesse la cura di recuperarli e portarli all’attenzione del pubblico. Soprattutto quando lo scrittore  è uno come Giuseppe Bonura, scomparso quattro anni or sono,  al quale erano legati molti lettori, per i tanti libri scritti nel corso degli anni, da quello di esordio “Il rapporto”,  uscito per i tipi di Rizzoli nel 1966 ai tanti altri che sono seguiti, da “Per partito preso” (Rusconi), finalista allo Strega del 1978 a “Le notti del Cardinale” (Aragno), finalista al premio Grinzane Cavour 2000: tutti  libri,  quest’ultimi,  per i quali aveva culto quello straordinario editor che era Raffaele Crovi, il quale in questa veste l’ha fortemente sostenuto. Un motivo in più poi per rileggerlo: Giuseppe Bonura era anche una firma del nostro giornale, e un suo racconto presente nella raccolta “Telefonata estiva”, uscì proprio sulla “Gazzetta del mezzogiorno” il 25 agosto 1995.
Ora , la persona che si è occupata di raccogliere i suoi tanti lasciti, è un giovane studioso milanese Giulio Passerini, che ha voluto intanto occuparsi dei racconti di Bonura, tra inediti e, se pubblicati, sparsi tra diverse riviste e giornali. Lo ha fatto  con accortezza, nella prospettiva di una loro necessaria pubblicazione, ordinandoli  secondo un disegno coerente. E’ nato così il volume dal titolo “Racconti del giorno e della notte”, edito dalla Hacca, con prefazione di Alessandro Zaccuri, che sottolinea la magistrale bravura dello scrittore di origine marchigiana, ma milanese di adozione, nell’arte del racconto.
Perché, innanzitutto, questa divisione temporale nel titolo, tra giorno e notte? Per un motivo molto semplice: questa raccolta esprime molto bene la compresenza nella persona, e nell’opera in generale, di Bonura di due componenti: una solare, adriatica, che non fa mistero della cultura cattolica, senza voler essere essa un’etichetta da esibire; l’altra, notturna, umorale, sulfurea, che se la prendeva con quanto di storto scopriva intorno a se, soprattutto nei confronti dei rappresentanti della chiesa e delle istituzioni che a quella cultura dicevano di appartenere. In questo quadro assume significato la frase che  il curatore ha fatto porre in esergo al testo, sulla quarta di copertina, tolta da uno dei testi: “Se fossi Dio, sarei ateo”. Lo sarei, s’intende, per quella gente che razzola male e dice di agire in mio nome. Da queste poche righe si può immaginare il tenore dei racconti, per altro ben rappresentati dalla significativa copertina di Maurizio Ceccato: un fantasmino smarrito in un mare di buio.  
Quello che più affascina, leggendoli, è  la capacità dell’autore di risolvere con una scrittura rapida, leggera, casi che hanno una loro complessità esistenziale o sentimentale. Prendiamo ad esempio proprio un racconto come “Telefonata estiva” (che apre la sezione racconti del pomeriggio). C’è il protagonista, io narrante, che riceve una telefonata lapidaria: “Tua moglie ti tradisce. Se non ci credi vieni a vedere. Il mare non è lontano”. Potrebbe essere il solito tema di mariti in città e mogli in vacanza, ma Bonura ha i mezzi per trasformare l’episodio in qualcosa di diverso, e anche divertente, ma non sul piano scontato del comico o del drammatico, bensì su quello più raffinato e sagace dell’ironia. Sulla stessa corda racconti come “L’uomo che scriveva a se stesso”, che non sfigurerebbe  in un’opera di Borges.  E non è il solo. Forse, a suscitare l’ammirazione è una peculiarità di Bonura, più rara di quanto si pensi soprattutto in quanti  si cimentano con il racconto, e cioè la capacità di chiusura dello stesso. Cosa più difficile di quanto si pensi, determinata com’è dalla richiesta misura dei testi, in particolare quando questa è stabilita, come è per alcuni di questi racconti, dalle esigenze delle diverse riviste o giornali che li hanno commissionati. In questo caso professionalità  e talento necessariamente devono andare  insieme. E i “Racconti del giorno e della notte” di Giuseppe Bonura  sono il miglior esempio.
                                                                                  Diego Zandel
Giuseppe Bonura, Racconti del giorno e della notte, Hacca, pag. 276, €. 14,00
            

sabato 9 giugno 2012

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 9-6-2012L’Italietta fa...

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 9-6-2012L’Italietta fa...: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 9-6-2012 L’Italietta fascista, tra ironia e sberleffo, tra gioventù e jazz IL SESSO DI UN TRIESTINO PICCOLO...
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 9-6-2012
L’Italietta fascista, tra ironia e sberleffo, tra gioventù e jazz
IL SESSO DI UN TRIESTINO PICCOLO-PICCOLO
“L’erotismo di Oberdan Baciro” di Lelio Luttazzi
Il ritratto di un’epoca e di un mondo in un racconto leggero, ma caustico sottopelle
di Diego Zandel
Grande musicista, indimenticabile uomo di spettacolo,  Lelio Luttazzi, scomparso due anni fa nella sua Trieste dove era tornato a vivere negli ultimi anni della sua vita,  ritorna come scrittore con un romanzo ironico e divertente, leggero nella scrittura ma caustico sottopelle e, in qualche modo, ritratto di un’epoca e di un mondo. Parliamo di “L’erotismo di Oberdan Baciro”, edito da Einaudi, nel quale l’autore rivive la sua adolescenza triestina alle prese con la scoperta del sesso attraverso l’interposta persona di Oberdan Baciro: Oberdan in onore dell’eroe irredentista datogli dalla madre fascista, maestra elementare e donna timorosa di Dio, per la quale il sesso e tutto ciò che, anche nominalmente, ha a che fare con le parti intime è tabù.  Non lo è invece per Oberdan,  orfano di padre, che fin da piccolo si sente attratto dal genere femminile, che solletica in lui strane voglie che ben presto sfociano in una intensa pratica onanista.
Il romanzo, diviso in tanti brevi capitoli, ciascuno dei quali riporta, di volta in volta, singoli episodi che dalla infanzia arrivano alla giovinezza, ricorda i tanti passaggi attraverso i quali Oberdan ha dato sfogo alle sue voglie senza però mai giungere, e non per sua volontà, alla piena soddisfazione di un atto sessuale completo, ogni volta dovendo ricorrere a dio Onan, e niente più.  All’inizio è perché le bambine, pur incuriosite anch’esse dal sesso, messe alle strette, si trasformavano improvvisamente in santarelline, facendo apparire il povero Oberdan  come uno sozzone. Diventato più grande, troverà una fidanzatina, Nives, figlia di un portinaio sloveno, che ha fatto voto di restare vergine fino ai 15 anni, e pertanto tutto si limiterà a vari toccamenti. Le volte che si presenterà l’occasione buona, con altre ragazze  più disponibili, sarà tradito da un herpes genitalis di origine nervosa  che lo costringerà al rifiuto o, peggio, a essere rifiutato in malo modo.
Per il resto, dovrà accontentarsi, prima dei racconti erotici di un amico più grande, Fausto, figlio di un collega della madre, uso a entrare e uscire dal manicomio, che gli racconterà le sue avventure erotiche con le altre “matte”. Quindi,  studente di musica, diventato un abile jazzista,  frequentare la buona società, ma tenuto a distanza dal gentil sesso per la sua natura piccolo-borghese,  dalle scarse risorse economiche, tollerato – le sue vecchie scarpe, i suoi abiti dimessi -  solo per il divertimento che procurava con i suoi swing.  Anche nel finale, quando la sorella ricca di uno di questi giovani, apparentemente indifferente al suo stato sociale, sembrerà innamorarsi di lui, spingendolo a lasciare Nives (che, nel frattempo, comunque s’era messo con un altro, fregandosene della promessa verginità), Oberdan dovrà  ben presto,amaramente, disilludersi. Intanto scoppia la guerra ed è costretto a partire soldato: andrà a Fiume, dove, grazie alla complicità di un amico partigiano, pur in divisa di soldato italiano andrà oltre confine per farsela con le balcaniche, “più indenni di quelle latine dall’oscurantismo cattolico”, ma commetterà un errore che gli varrà la vita.
Al di là dei gustosi episodi, autentiche scenette mai volgari pescate dai ricordi del tempo che fu, il libro ha altri  motivi di interesse: uno riguarda il ritratto della Italietta fascista che viene fuori  e alla quale si oppone lo spirito libertario di Oberdan, che mal tollera la vocazione della madre a educare al fascismo gli scolari sloveni , refrattari all’obbligo di onorare un regime che li opprimeva; il secondo, proprio perché il romanzo scorre su un versante del tutto apolitico e felicemente autobiografico, per la capacità che ha, più di seriosi saggi o drammatici romanzi sull’argomento, di sottolineare la difficile convivenza che col fascismo s’era creato a Trieste tra italiani, sloveni e, una volta Oberdan diventato grande ed emesse le leggi razziali,  gli ebrei.  E tutto scritto con il solito swing del grande Lelio Luttazzi.
Diego Zandel
Lelio Luttazzi, L’erotismo di Oberdan Baciro, Einaudi, pag. 163, €. 17,00

LADRO DI LIBRI: SUL "CORRIERE ADRIATICO" SI PARLA DI "ESSERE BOB L...

LADRO DI LIBRI: SUL "CORRIERE ADRIATICO" SI PARLA DI "ESSERE BOB L...: CORRIERE ADRIATICO sabato, 9 giugno 2012                                           UN’ICONA PREZIOSA TRA MAFIA E SERVIZI Diego Zandel, scri...

SUL "CORRIERE ADRIATICO" SI PARLA DI "ESSERE BOB LANG"

CORRIERE ADRIATICO sabato, 9 giugno 2012                                          
UN’ICONA PREZIOSA TRA MAFIA E SERVIZI
Diego Zandel, scrittore nato da genitori fiumani, ha da poco dato alle stampe “Essere Bob Lang” in cui racconta una vicenda su due piani di sequenza. Marco è un impiegato di banca stanco del suo lavoro. Vorrebbe fare lo scrittore e si decide ad inventare un personaggio, Bob Lang, alter ego del suo amico scrittore di successo, Sebastiano Monti. A Cipro i servizi segreti, la mafia russa e gli avventurieri di ogni tipo sono a caccia di una preziosa icona greca e combattono una guerra senza quartiere. Ecco quindi che la storia si dipana in un thriller dei nostri giorni, marcato da una scrittura veloce, a tratti perfino cinematografica. Ci sono scene d’azione vibranti e incastonate dentro una contemporaneità tutta da reinventare tra uomini d’affare e belle ragazze. Siamo di fronte ad un giallo con risvolti imprevedibili ma mai eccessivi, inverosimili. Zandel ci aiuta a capire che la quotidianità nasconde zone buie proprio quando sembra essere assuefatta dalla noia. Gli uomini hanno una doppia identità e la svelano, poco a poco. “Essere Bob Lang” è un romanzo molto raccontato. L’intercalare delle vicende assume un tono sempre più avvincente fino alle ultime pagine. L’intrigo internazionale non nasconde, però, l’intimità domestica. Marco e il suo lavoro, Marco e la sua frustrazione, Marco e il suo sogno. Perché l’evasione della letteratura consente la scoperta di mondi paralleli. “Partire, torna a pensare Marco, andare lontano. Nella sua vita c’è stato un solo viaggio che ha avuto il senso di un’evasione totale, di una sorta di avventura, quello compiuto, ventenne, in Grecia, con sua madre, che tornava nella sua indimenticabile isola d’origine per riabbracciare dopo tanti anni di lontananza i fratelli e le sorelle, a rendere omaggio alla tomba dei genitori, sepolti nel piccolo cimitero su un colle sopra il villaggio di Asfendiou”. La visione di un lontano angolo di mondo è il lancio per costruire, passo dopo passo, il giallo. Senza effetti speciali, senza spettacolarizzazioni inutili. Un romanzo ben calibrato, essenziale, che non rinuncia all’ambientazione suadente nei luoghi, da Roma a Cipro, al Medio Oriente.
Alessandro Moscè