giovedì 29 marzo 2012

LADRO DI LIBRI: UNO SCRITTORE DELLA MINORANZA SLOVENA IN AUSTRIA

LADRO DI LIBRI: UNO SCRITTORE DELLA MINORANZA SLOVENA IN AUSTRIA: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO  29-3-2012 Arriva in Italia per la prima volta la traduzione dell’autore austriaco vissuto in Carinzia CO...

UNO SCRITTORE DELLA MINORANZA SLOVENA IN AUSTRIA

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO  29-3-2012

Arriva in Italia per la prima volta la traduzione dell’autore austriaco vissuto in Carinzia
COM’ERANO BRUTTINE LE <<COLF>> DEI COLLEGI CLAUSTROFOBICI
Florian Lipuš, il racconto della vita in seminario

di Diego Zandel

Ci sono paesi che sostengono le loro minoranze linguistiche.  Prendiamo uno degli ultimi, bei libri pubblicati dall’editore Zandonai, che sempre più si sta caratterizzando per l’attenzione che rivolge agli autori dei paesi dell’Est europeo. Mi riferisco in particolare, ora, a “L’educazione del giovane Tjaž” di Florjan Lipuš, nella traduzione di Michele Obit. L’autore è cittadino austriaco, appartiene però alla minoranza slovena della Carinzia. In questo senso, è l’esponente più notevole della letteratura slovena in Austria. Ebbene, per la pubblicazione del suo libro in Italia si  sono spese ben tre istituzioni importanti, una austriaca (il Ministero per l’Educazione, le Arti e la Cultura) e due slovene (l’Agenzia nazionale per il libro e l’Associazione slovena degli scrittori). Così si fa. E a ragione. Non certo per mantenere il punto della presenza identitaria e linguistica su un territorio di confine, ma per valorizzare ciò che merita di essere conosciuto. E Florian Lipuš merita di essere conosciuto.
Il primo ad accorgersene è stato Peter Handke, che con la collaborazione di Helga Mračnikar, ha tradotto “L’educazione del giovane Tiaž” in tedesco. Anche perché Handke, di madre slovena, ha frequentato lo stesso collegio seminariale Marianum di  Maria Saal  a Sankt Veit an der Glan in cui è stato Lipuš e che ha ispirato il romanzo di cui stiamo parlando.
Si tratta infatti di una storia per certi versi autobiografica, escluso il finale. Ma certamente tale per quanto riguarda lo spirito iconoclasta che la anima. Il giovane Tiaž sente l’oppressione di vivere in questo collegio, i cui insegnamenti poggiano su una sostanziale ipocrisia, religiosa, sessuale, disciplinare, che spingono il protagonista a una insofferenza nei confronti dell’ambiente. Il dramma qui, in qualche modo, si sposa felicemente al sarcasmo, alla derisione. Se l’aspetto claustrofobico e l’ambiente limitato culturalmente riporta alla mente un autore sloveno straordinario come Ivan Cankar e il suo “L’idealista” (storia di un maestro socialista in un villaggio contadino in cui il suo credo è soffocato dall’ignoranza della gente), quello sarcastico e grottesco richiama gli scrittori mitteleuropei più significativi. Anche per la scrittura allegorica, allusiva. Si pensi a come risolve in una battuta la ipocrita pruderie collegiale là dove, mentre si ritrova con una ragazza che rischierebbe di essere sbattuta fuori dalla pensione in cui alloggia se viene con un maschio, ricorda “nel collegio di solito era peggio, a coricarsi sullo stesso letto erano in due, e talvolta si cimentavano in un vicendevole sforzo manuale”. Oppure, ancora, l’idea della direzione di assumere come cameriera alla mensa una donna brutta di viso e di figura,  soddisfacendo così “in maniera ideale i requisiti per essere ammessi a lavorare in collegio”; ciò nonostante però consapevole ben presto, la donna, di suscitare curiosità nei ragazzi  per la sua “fessura”, ben presto si affrettava a soddisfarla.
La stessa trasgressione sul piano religioso. Lipuš-Tjaž indaga che la parola Dio, in sloveno è Bog, e ciò drammaticamente ricorda la parola ubog, che vuol dire povero,  che è la condizione che ha portato Tjaž, figlio di un boscaiolo e di una donna morta in un campo di concentramento in collegio. Finché per la sua irrispettosità manifesta non sarà espulso, per poi fargli scegliere il suicidio. “Con la sensazione che in un momento così difficile era stato al proprio posto e si era dimostrato un uomo nel vero senso della parola” come riporta la voce fuori campo di chi con Tjaž era in collegio e ne racconta la storia. Forse neppure con troppa amicizia.
                                                                       Diego Zandel
Florjan Lipuš, L’educazione del giovane Tjaž, Zandonai, pag.183, €. 13,00

domenica 25 marzo 2012

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 25-3-2012L’INTERVISTA...

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 25-3-2012
L’INTERVISTA...
: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 25-3-2012 L’INTERVISTA A JULIET GAEL, AMERICANA, AUTRICE DI UN CORPOSO STUDIO VI RACCONTO LA VERA STORIA ...
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 25-3-2012

L’INTERVISTA A JULIET GAEL, AMERICANA, AUTRICE DI UN CORPOSO STUDIO
VI RACCONTO LA VERA STORIA DELLE SORELLE BRÖNTE TRA AMORI, FORZA E MISTERI

di Diego Zandel

Juliet Gael, americana, vive a Firenze. Nonostante la laurea in letteratura francese,  ha scritto un romanzo sulla vita delle sorelle Brontë, colte nella loro casa in uno sperduto villaggio dello  Yorkshire. A riguardo, dice: “Ho anche studiato materie cinematografiche e letteratura inglese all’Università della California, ed è stato quando ho fatto un seminario sulle sorelle Brontë e ho letto tutti i loro romanzi che è nato il mio desiderio di raccontare la loro storia”.
Signora Gael, a leggerla sembrerebbe una sorta di ritratti di un interno, ma gli échi esterni premono alla porta di casa Brontë.  Sono forse questi échi l’origine della narrativa delle sorelle Brontë o il chiuso in cui vivevano?
Ogni sorella e ciascun romanzo ha tratto ispirazione da desideri ed esperienze molto diverse fra loro; per Emily, la gente del luogo, rozza e violenta, e la passione per le brughiere dello Yorkshire; Ann scriveva soprattutto racconti ispirati dalla debolezza morale del fratello; le storie di Charlotte sono invece state ispirate dai suoi viaggi, dall’amore non corrisposto per Heger, e dagli autori romantici come Sir Walter Scott e Lord Byron.
Tutta la famiglia Brontë è interessante, non solo le tre sorelle, ma anche il padre e il fratello Branwell. Perché lei si è concentrata di più su Charlotte, pur non perdendo mai il quadro di insieme?
Charlotte aveva tutte le qualità dell’eroina; è forse il personaggio più intensamente tragico della storia letteraria, e ha scritto un romanzo, Jane Eyre,  che entra in risonanza con i lettori ancora dopo oltre 150 anni. Il fratello e il padre sono interessanti come parte di questa famiglia brillante e talentuosa, ma la storia personale di Charlotte ha tutti gli elementi del vero dramma.
Trova interessante la personalità di Emily, la sua sofferenza fisica, la dedizione e la disciplina letteraria,  l’interiorizzazione  gelosa della scrittura?
Emily era misteriosa, un enigma anche per la sua famiglia, terribilmente indipendente e tenace.
Quanto importante per Charlotte è stato l’amore platonico per Costanti Heger?
Lui era un uomo carismatico e attraente dal punto di vista intellettuale, e i sentimenti di Charlotte nei suoi confronti erano tutt’altro che platonici. Dopo essere tornata in Inghilterra, addirittura diventarono ossessivi. La sua esperienza a Bruxelles le ispirò sia il primissimo romanzo, The Professor, che non fu mai pubblicato quando lei era in vita, sia il grande romanzo Villette.  
Le tre sorelle hanno più o meno caratteri, o meglio visioni morali, simili. Non così il fratello innamorato, e corrisposto, da una donna sposata. Effetti dell’epoca  vittoriana?
Questi comportamenti secondo “due pesi, due misure” venivano più o meno tollerati a seconda della cerchia o classe sociale di appartenenza. Il comportamento del fratello era molto influenzato dall’ideale romantico di Byron, quello del Don Juan; ma per la maggior parte degli uomini dell’epoca vittoriana, soprattutto per quelli del mondo ecclesiastico, si esigeva un’alta moralità.
Interessante la sua ricostruzione storica, soprattutto quella quotidiana (penso a Emily malata di tisi, costretta, col freddo e il gelo, a raggiungere le latrine fuori).
Quanto tempo le ha preso la ricerca?
Ho iniziato le ricerche con l’idea di scrivere una sceneggiatura e dieci anni dopo ho ripreso la storia per farne un romanzo. Ho impiegato almeno due anni per raccogliere il materiale. Ho letto le biografie di tutti i membri della famiglia Brontë, i testi delle lettere, i libri sulla storia naturale dello Yorkshire, la storia e le consuetudini dell’epoca vittoriana. Ho utilizzato anche libri sull’arte di quel periodo, sia come fonte di ispirazione che per l’accuratezza dei dettagli storici.
                                                                       Diego Zandel
Juliet Gael, Romancing Miss Brontë, TEA, pag. 425, €. 14,00


martedì 20 marzo 2012

INTERVISTA ALLA SCRITTRICE GRECA ERSI SOTIROPOULOS. EDITO DA NEWTON COMPTON IL SUO ROMANZO "IL SENTIERO NASCOSTO DELLE ARANCE"

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 20 marzo 2012

“Il sentiero nascosto delle arance” della scrittrice greca.
TRA AMORE E MORTE IL TRAMONTO DI ATENE
A colloquio con Ersi Sotiropoulos

di Diego Zandel

Ha la voce roca, della fumatrice incallita, Ersi Sotiropoulos, la scrittrice greca della quale l’editore romano Newton Compton manda in libreria un romanzo che ha avuto successo in tutto il mondo. Parliamo di “Il sentiero nascosto delle arance”. La scrittrice, giunta in Italia per presentarlo, parla perfettamente la nostra lingua. Non solo si è laureata in antropologia culturale all’università di Firenze, ma anche, per tutti gli anni ottanta, è stata consigliere culturale all’ambasciata greca di Roma. Della scrittrice sono stati pubblicati in Italia altri due libri: “Tre giorni festivi a Ghiannina”, edito da Theoria, e “Mexico”, per Donzelli. Libri tradotti direttamente dal greco,  mentre “Il sentiero nascosto delle arance” , pur essendo uscito originariamente in Grecia, nel 2007,  risulta qui essere tradotto dall’inglese.
Come mai?
Penso che ci sia stato un malinteso. L’agente letterario americano ha mandato il libro in inglese alla Newton&Compton e questi ha proceduto alla traduzione direttamente dall’edizione americana. Leggendo il testo in italiano posso dire che la traduzione mi piace.
“Il sentiero nascosto delle arance” è un romanzo drammatico, pur nel solco di una apparente normale esistenza, attraverso la quale si rivela un mondo di spostati, così com’è quello rappresentato da più personaggi, le cui vite s’intrecciano  all’interno di una storia in cui, un po’ come in tutti i romanzi di questa scrittrice,  eros e thanatos si confrontano.
Quali sono i personaggi della vicenda?
Abbiamo  Lia, affetta da un raro virus che la condurrà alla morte, suo fratello Sid, che si impelagherà in un po’ di guai con Sotiris, l’infermiere dell’ospedale in cui è ricoverata la sorella, dopo che lei gli avrà chiesto di dargli una lezione perché la tratta male. C’è Julia, una ragazza che si trova, a sua insaputa, a passare dal letto di Sid a quello di Sotiris, non sapendo che i due si conoscono (in realtà Sid si era presentato a Sotiris con un’altra identità, spacciandosi per un vecchio compagno di scuola e così introdursi nella sua vita per rovinargliela). E infine  Nina, un’adolescente inquieta, che vive nel paese di Sotiris, a pochi chilometri da Atene, tanto conturbante da spingere Sotiris a un atto di esibizionismo sessuale davanti a lei, invano tacitato da un’offerta in denaro. Ma il pericolo di uno scandalo  viene scongiurato. Su tutti aleggia la figura di un merlo indiano, parlante, che ha la funzione della cattiva coscienza come nell’antica tragedia greca. Indifferente agli affetti, capriccioso, passa per dispetto dalle mani di Sid a quelle di Sotiris creando loro ulteriori problemi.
Quanto della sua straordinaria vita, contrassegnata da un’adolescenza inquieta, come ad esempio quella di Nina, che vuole diventare, appunto, scrittrice, entra in questo e altri suoi romanzi?
L’aspetto autobiografico c’è e non c’è. Tutti i libri traggono linfa dalla esperienza dell’autore, ma poi questa, scrivendone, si trasforma al punto da essere talvolta irriconoscibile. Certo, conosco ad esempio la vita dell’ospedale, un microcosmo, devo dire, che mi affascina, dove, appunto, eros e thanatos s’incontrano. Anche se in questo romanzo è diverso: qui il desiderio di eros e di amore fa appello alla morte, ha molto di distruttivo.
Sappiamo delle sue ascendenze letterarie, in poesia, oltre ai greci Kavafis e Seferis,   Pound ed Eliot, e nella narrativa Faulkner. Lei però conosce anche la letteratura italiana. Chi sente più vicino?
Senz’altro Calvino e Buzzati.  Ma non sono solo io a seguire gli italiani, lo è un po’ tutta la editoria greca. Non a caso esiste un premio annuale, della cui giuria io faccio parte, che segnala la migliore traduzione greca di un’opera di uno scrittore italiano. E si continua a farlo, nonostante le difficoltà economiche in cui la Grecia è immersa.
A proposito, com’è la situazione, vista dagli occhi di una scrittrice come lei?
E’ un disastro, non c’è altra parola, e per giunta senza orizzonte. C’è un taglio netto dei finanziamenti culturali, tanto che addirittura il Festival di Atene, che era un faro nel nostro mondo culturale, è ora crollato. Per quanto riguarda la pubblicazione dei libri, questi ultimi due mesi sono stati i peggiori. Anche per i giornali, se pensa che a chiudere i battenti è stato un grande quotidiano come Elefterotipia.
                                                                                              Diego Zandel
Ersi Sotiropoulos, Il sentiero nascosto delle arance, Newton Compton, pag. 252, €. 9,90   

lunedì 19 marzo 2012

LADRO DI LIBRI: LADRO DI LIBRI: NOVITA’ IN LIBRERIA: Fruttero&Luce...

LADRO DI LIBRI: LADRO DI LIBRI: NOVITA’ IN LIBRERIA: Fruttero&Luce...: LADRO DI LIBRI: NOVITA’ IN LIBRERIA: Fruttero&Lucentini John Banvi... : Entrate nella letteratura attraverso la porta aperta con intelligenz...

INTERVISTA A CLARA SANCHEZ

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO  18-2-2012

Una donna in coma e tanti sensi di colpa. Il romanzo della scrittrice spagnola (dopo “Il profumo delle foglie di limone”)
LA VITA E’ SOGNO E S’ILLUMINA QUANDO MINACCIA DI FINIRE
A colloquio con Clara Sanchez, autrice di “La voce invisibile del vento”

Di Diego Zandel

Una famigliola spagnola, padre, madre e figlio di pochi mesi, va in vacanza. Località Las Marinas: tutta una serie di condomini e residence sul mare, in mezzo ai quali è difficile all’inizio orientarsi. Arrivano e si accorgono di non avere il latte per il bambino. La donna, Julia, dice: vado a comprarlo, troverò una farmacia. Esce con la macchina ed ha un incidente. Gravemente ferita, va in coma. E’ l’incipit di un romanzo “La voce invisibile del vento” pubblicato in questi giorni in Italia da Garzanti, scritto però prima del grande successo di pubblico (340 mila copie vendute solo in Italia) avuto con il romanzo “Il profumo delle foglie di limone” dalla scrittrice spagnola Clara Sanchez, che abbiamo incontrato a Roma.
Signora Sanchez, questo romanzo in particolare come è nato? Ci sono state situazioni di coma che ha vissuto da vicino o è una puro escamotage narrativo?
Il romanzo nasce da un mio personale interesse per il funzionamento del cervello, della mente, dei sogni, nato quando mia madre è stata vittima di un ictus cerebrale e mi sono resa conto che tutto ciò che noi siamo in grado di fare risiede nella nostra mente. Ci sono poi altri aspetti: il fatto, ad esempio, che io mi senta smarrita talvolta di fronte all’esistenza, manipolata dai grandi poteri. Da qui nasce la domanda che è la base di partenza del romanzo: che cosa fare se a un certo punto della mia esistenza perdessi tutto ciò che rappresenta la mia vita? Come potrei vivere in questo mondo fatto di supermercati, di macchine? E la risposta me l’ha data Julia, quando lei pensa di essersi persa e di aver perduto così tutto ciò che aveva.
L’incidente di Julia non sembra casuale: seppur sposata con Felix e con un figlio ha una relazione clandestina, compulsiva, con un collega Marcus, dal quale non riesce a staccarsi, con grandi sensi di colpa.
Diciamo che in quel momento di conflitto non dichiarato che stanno vivendo Felix e Julia, la vita, sotto forma di incidente, offre loro un’altra occasione. E ciò è possibile perché vediamo che quando il romanzo comincia c’è l’ossessione amorosa di Julia per Marcus e che si sente  molto in colpa per questo, alla fine però l’incidente è come una sorta di passaggio che la libera da entrambe le cose: della sua ossessione e dei sensi di colpa.
Nel suo romanzo ci sono due piani narrativi, quello di Felix e quello di Julia in coma. Quest’ultima, incosciente, non sogna forse in una forma troppo coerente?
Deve fare una considerazione: mentre sogniamo i nostri sogni ci appaiono del tutto logici e naturali, ed è questa dimensione che volevo esprimere, il sogno nel suo farsi. Poi, solo quando ci svegliamo ciò che abbiamo sognato e di cui ricordiamo magari solo il 10 per cento, ci sembra bizzarro, incoerente. Ma nel mio romanzo il lettore vive i sogni di Julia come uno spettatore, come li vive lei, in una realtà logica, coerente, naturale.
Questo romanzo lo ha scritto prima de “Il profumo delle foglie di limone”. Che cosa lega i due romanzi, a parte l’autrice?
Il mio modo di vedere la vita e il modo in cui io racconto le storie, per quanto diverse. Entrambi i romanzi riflettono quello che è il mio stile. Per altri punti, le storie si svolgono nella stessa cittadina, posto soleggiato, di vacanza, dove sembra che nulla di grave possa accadere. Invece vediamo che in “Il profumo delle foglie di limone” ci si aggirano personaggi sinistri e in questo c’è un grave incidente. Entrambi i romanzi poi sono narrati da due persone diverse, lì Juliano e Alessandra, qui Felix e Julia, e in entrambi ancora vediamo una donna che deve attraversare molti ostacoli ed ha la responsabilità di un bambino molto piccolo. Entrambe le donne, infine, lottano per la libertà della loro coscienza e c’è un uomo che le aiuta: a me piacciono molto le figure maschili non cattive.
                                                                       Diego Zandel
Clara Sanchez, La voce invisibile del vento, Garzanti, pag. 361, €. 17,60


sabato 17 marzo 2012

venerdì 16 marzo 2012

NOVITA’ IN LIBRERIA: Fruttero&Lucentini John Banville Fabio Bartolomei Philippe Claudel, Velibor Čolić Jelena Banfichi Di Santo Matthew Dunn Gian Luigi Gasparri Judith Hermann Erika Rigamonti Gare Santos Valeria Isacchini Brina Svit Jàchym Topol Nicola Verde

Entrate nella letteratura attraverso la porta aperta con intelligenza, ironia, sagacia, divertimento, mai banale, dalla compianta coppia Fruttero&Lucentini, di cui Avagliano pubblica I nottambuli (a cura di Domenico Scarpa). €. 15,00. 
Se amate i gialli raffinati – come, in fondo, li scrivevano anche Frutter& Lucentini – ma in questo caso con meno ironia e più crisi di coscienza gettatevi su “Un giorno d’estate” di John Banville (Guanda, €. 18,00).
Ma sempre in chiave di suspense, se volete proprio divertirvi, fa per voi “La banda degli invisibili” di Fabio Bartolomei, dove si narra di un gruppo di vecchietti, guidati da un ex partigiano, che organizza un rapimento: quello di Silvio Berlusconi (e/o €. 16,00).
Altrettanto surreale, ma con toni più drammatici “L’inchiesta” di Philippe Claudel, secondo Fabio Gambaro, di Repubblica “uno dei migliori romanzieri della sua generazione”, cioè classe 1962 (Ponte alle Grazie, €. 16,80)
Grande il mio amore per la narrativa balcanica. Nikita, una piccola casa editrice che ha fatto della sua “mission” quella di far conoscere al pubblico italiano gli autori dell’est europeo, pubblica  “Gesù e Tito” di Velibor Čolić: un romanzo che attraverso la passione per il calcio investiga sui miti del secolo breve. Tra i quali, per uno nato in Bosnia-Erzegovina nel 1964, non può mancare Tito.
Per restare in campo balcanico, segnalo il libro della scrittrice croata Jelena Banfichi Di Santo “La Casa in pietra grigia”, edito da Odoya, che al regime di Tito fa le pulci. L’autrice ora vive in Italia, a Bari.
Tutt’altro mondo quello di Matthew Dunn, ex agente del servizio segreto inglese MI6 che ci introduce in un mondo affascinante con il romanzo “Spykiller”, edito da Longanesi  (€. 17,60).  Da vecchia spia, posso dirvi che… affascina.
Volete invece farvi una risata su cose serie? Leggete “Strafalcioni, dove la cronaca si fa comica”, edito da La Lepre, in cui il giornalista del Resto del Carlino Gian Luigi Gasparri ha raccolto tutte le “puttanate” che i giornali hanno scritto. A giustificazione dei giornalisti va detto: che i tempi  in cui sono costretti ad operare sono molto ristretti. Ve lo dice uno che se ne intende. Ma, effettivamente, “migliorano le condizioni del carabiniere ucciso” è un po’ troppo.
A chi non ama ridere, ma solo leggere libri di grande spessore narrativo, consiglio “Alice” della tedesca Judith Hermann, edita da una piccola ma interessante casa editrice, le Edizioni Socrates.
E, per restare alle cose serie, e alle piccole case editrici,  non esitate a leggere “Binario 7” di Erika Rigamonti, che narra l’incubo di vivere in una famiglia apparentemente perbene, in realtà attraversata da una  perfida violenza. (Mobydick, €. 17,00)
Per restare nell’ambito delle famiglie infelici un altro romanzo da prendere in seria considerazione è “Un uso qualunque di te” di Sara Rattaro, edito da Giunti.
Più distensivo il romanzo d’epoca “Il colore della memoria”, edito da Salani. Quasi 600 pagine cariche di nostalgia, amore, calore e mistero – e che anche qui ha a che fare ancora con famiglie e segreti – a dir poco travolgenti. L’autrice è Gare Santos, nata in provincia di Barcellona, dov’è ambientato – negli anno Trenta  - il romanzo. Non perdetevelo.
Se poi non vi piacciono i romanzi, ma le storie vere ”Fughe”, edito da Mursia, fa per voi:  è il racconto – vero, autentico – dei soldati italiani prigionieri in Africa e in India – prigionieri degli inglesi - durante la guerra e che si sono dati alla fuga dai campi di concentramento o dalle prigioni in cui erano rinchiusi. Io ho conosciuto due soldati che erano prigionieri in India: un militare di carriera, diventato poi generale, amico di famiglia, e un altro soldato, vicino di casa in quel di Tor San Lorenzo dove avevo una piccola casetta al mare, poi venduta. Tornato in Italia, a Roma, aveva aperto un bar. Da lui, per la prima volta ho appreso che c’erano stati soldati italiani prigionieri in India durante la seconda guerra mondiale.  “Fughe” ne racconta l’epopea. Autrice è Valeria Isacchini, che di mestiere fa ‘insegnante e la bibliotecaria.Fughe
E, per tornare agli autori balcanici, forse in questo caso meglio dire mitteleuropei, segnalo il libro della slovena Brina Svit “Coco dias tango”, edito da Nikita. Nata a Lubiana nel 1964, vive in Francia. Non ci crederete, perché so quanto gli sloveni, per essere un piccolo popolo, tengono alla loro lingua, ma Brina Svit scrive in francese (salvo poi tradurre lei stessa i suoi romanzi in sloveno).  E’ il suo secondo romanzo tradotto in Italia. Il primo fu  “Morte di una primadonna slovena”, edito da Zandonai – piccole gloriosa casa editrice, anch’essa attenta ai balcanici – nel 2007.
Sempre edito dalla Zandonai, merito di quel grande editor  che è Riccardo Geri – purtroppo da poco licenziato  dalla casa editrice – merita di essere segnalato  il ceco Jàchym Topol  “L’officina del diavolo”, che ripercorre il mondo comunista criticando – in forme grottesche, alla Hrabal – secondo una visione consumista. Il dolore, l’orrore, cioè, reso business.
Ultimo libro di questa carrellata, quello dell’amico Nicola Verde “La sconosciuta del lago”, edito da Hobby&Work (€. 18,00), che racconta una storia vera, il ritrovamento del cadavere di una donna decapitata nei pressi di Roma. Però tutto è visto con occhi diversi. Quelli dei personaggi che in qualche modo hanno avuto a che fare con la vittima. A tirare le fila il commissario Leopardo Malerba, un tipo da prendere con le molle, stando alla sua dubbia moralità e ai metodi d’indagine un po’ troppo discutibili.
Buona lettura.   














LADRO DI LIBRI: DOPO LA NEWTON COMPTON UN ALTRO EDITORE MANDA IN L...

LADRO DI LIBRI: DOPO LA NEWTON COMPTON UN ALTRO EDITORE MANDA IN L...: Oggi debutta in libreria Tre60 , nuovo marchio della casa editrice TEA che pubblica novità assolute di autori italiani e stranieri a un pr...

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LADRO DI LIBRI: DOPO LA NEWTON COMPTON UN ALTRO EDITORE MANDA IN L...: Oggi debutta in libreria Tre60 , nuovo marchio della casa editrice TEA che pubblica novità assolute di autori italiani e stranieri a un pr...

DOPO LA NEWTON COMPTON UN ALTRO EDITORE MANDA IN LIBRERIA TITOLI A €. 9,90. AVANTI GLI ALTRI!

Oggi debutta in libreria Tre60, nuovo marchio della casa editrice TEA che pubblica novità assolute di autori italiani e stranieri a un prezzo eccezionale: 9,90 euro.

Come un camaleonte (questo è il suo logo), che si distingue per avere una visione a 360° e per la capacità di adattarsi all'ambiente circostante, la casa editrice propone libri di qualità pensati per un pubblico il più eterogeneo e vasto possibile: dai thriller ai romanzi sentimentali, dai gialli all'urban fantasy, dai romanzi storici ai romanzi d'avventura. Perché l'obiettivo di Tre60 è portare in Italia grandi successi internazionali e valorizzare le opere di autori italiani di talento.

Da oggi è on line il suo sito: http://www.tre60libri.it/

mercoledì 14 marzo 2012

LADRO DI LIBRI: LA MIA LETTURA DEL SECONDO ROMANZO DI LORENZA GHIN...

LADRO DI LIBRI: LA MIA LETTURA DEL SECONDO ROMANZO DI LORENZA GHIN...: LA MIA LETTURA DEL SECONDO ROMANZO DI LORENZA GHINELLI "LA COLPA" pubblicata da Diego Zandel il giorno mercoledì 14 marzo 2012 alle o...

LA MIA LETTURA DEL SECONDO ROMANZO DI LORENZA GHINELLI "LA COLPA"

pubblicata da Diego Zandel il giorno mercoledì 14 marzo 2012 alle ore 10.26 ·
DA "LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO"  14 marzo 2012

DUE RAGAZZI E UNA BAMBINA E LA LORO “INGRATA ETA’”
MAI DEVI DIRLA FELICE L’ADOLESCENZA
“La colpa” di Lorenza Ghinelli

di Diego Zandel

Il primo romanzo di Lorenza Ghinelli “Il divoratore” aveva a che fare con l’infanzia violata. Il tema non cambia con il secondo “La colpa”, edito come il primo da Newton Compton Editori, e come quello già diventato, in poche settimane, un best seller. Il prezzo del volume, euro 9,90,  molto economico com’è nella tradizione di questa straordinaria casa editrice romana, sarà pure tra le ragioni che pongono i suoi titoli, più di uno alla volta, in buone posizioni, tra i primi venti nell’elenco dei libri più venduti, come pure – quasi a minimizzarne le ragioni - si sta tanto discutendo in questi giorni.
Ma ci provassero le altre case editrici a fare altrettanto. Chi o che cosa impedisce loro? Anche se è vero, si stanno tentando operazioni del genere (ad esempio la Mondadori, a 10 euro), ma stando attenti che si tratti si libri di poche pagine, non normali come è per quelli della Newton Compton.
Ma prezzo o non prezzo, è un dato di fatto comunque che, tutto sommato, la  Newton Compton manda in libreria titoli e autori che non sono per nulla inferiori a quelli delle altre case editrici. Per lo meno a livello di quello che è l’andazzo generale: cioè la ricerca di titoli commerciali, ben fatti, omologatissimi a quelle regole di fabbrica del best seller che sono la facilità di lettura, l’immediatezza, la banalità dei sentimenti o la facilità di suscitare orrore o mistero, con un certo tipo di storie e titoli che si rifanno, in forma più o meno di fotocopia, al best seller di riferimento: quanti emulatori di Dan Brown abbiamo avuto in questi anni? Quanti autori scandinavi, presentati tutti come eccezionali eredi di Stieg Larsson? Quanti con la parola “limone” nel titolo dopo il successo de “Il profumo delle foglie di limone” di Clara Sànchez e così via?
Il secondo romanzo della Ghinelli vale tutti quelli. Anzi, lo fa con una caratteristica tutta sua nella scrittura, in grado di mescolare sapientemente il linguaggio basso della grafic novel con quello quasi lirico, evocativo, essenziale della musica pop e rock. E ce n’è tanta di musica in questo romanzo, dei Sex Pistols, di David Bowie e altri ancora, che i giovani protagonisti ascoltano o rimasticano in testa, quasi a dare ritmo a una storia che, appunto, si basa tutta sul ritmo.
Tre i protagonisti, ragazzi, o meglio due ragazzi e una bambina, le cui vite si svolgono oggi, ma del cui passato, collocabile all’infanzia, restano detriti che fanno ancora male. Sono le vite di Estefan, violentato all’età di nove anni da uno zio, fratello della madre, di Martino che naviga nella coscienza incerta di avere forse ucciso, quand’era piccolissimo, il fratellino appena nato, e Greta, che vive col nonno, nella sofferenza di aver saputo, crescendo, che sua madre – una tossica – è morta partorendola.
Ecco, le loro vite s’intrecciano, e non sono diverse – a parte Greta, ancora non così cresciuta da poterlo già fare – da quelle degli adolescenti di oggi, che consumano le loro giornate tra la scuola, magari studiando malvolentieri, qualche canna e qualche aperitivo di troppo. Oltre che nel conflitto con i genitori o, come per Greta, nella disobbedienza clandestina, sfuggendo alle raccomandazioni del nonno (fino, in questo caso, a una conclusione tragica).
Lo sfondo del romanzo è quello della costa romagnola come già ne “Il divoratore”. Rispetto ad esso c’è meno orrore, forse, e più angoscia esistenziale. E’ certa però la capacità dell’autrice di saper leggere, e interpretare sulla pagina, l’età ingrata dell’adolescenza, soprattutto di quella fase che segna il fatidico passaggio ad essa da quella dell’infanzia.
                                                                                  Diego Zandel
Lorenza Ghinelli, La colpa, Newton Compton Editori, pag. 241, €.9,90

lunedì 12 marzo 2012

LADRO DI LIBRI: INTERVISTA A TOREY L. HAYDEN, UNA SCRITTRICE DA MI...

LADRO DI LIBRI: INTERVISTA A TOREY L. HAYDEN, UNA SCRITTRICE DA MI...: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 12 marzo 2012 L’INTERVISTA “L’INNOCENZA DELLE VOLPI” DELLA SCRITTRICE USA MIO CARCERIERE CRUDELE E AMABIL...

INTERVISTA A TOREY L. HAYDEN, UNA SCRITTRICE DA MILIONI DI COPIE NEL MONDO

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 12 marzo 2012

L’INTERVISTA “L’INNOCENZA DELLE VOLPI” DELLA SCRITTRICE USA
MIO CARCERIERE CRUDELE E AMABILE

Il romanzo di Torey L.Hayden

di Diego Zandel

La scrittrice americana, ma inglese di adozione, Torey L. Hayden è in Italia per la presentazione del suo nuovo romanzo “L’innocenza delle volpi”, edito come il precedente “La foresta dei girasoli” da Corbaccio. E’ la storia del rapimento di un bambino e di un legame che si instaura tra il bambino, Tennesee, maltrattato dal padre e dalla madre divisi, e Dixie, la carceriera, alla quale da poco è morta, infante, una bambina, Jamie Lee.
Signora Hayden, c’è da dire che l’avvio di questo suo nuovo romanzo è triste, per la morte e il funerale del piccolo Jamie Lee, e per come viene trattato il bambino Tennesee. Un incipit che rischia di essere repulsivo…
Un rischio che tutti gli scrittori devono correre, qualunque sia il loro testo. Ci saranno sempre dei lettori ai quali non piacciono certi aspetti della storia,  a volte a tal punto da non proseguire la lettura.  Semplicemente così vanno le cose.  Non è possibile accontentare tutti, e comunque non è questo che deve fare un autore. Lo scrittore non può scrivere per gli altri.  Chi scrive lo fa per sé soltanto, perché è l'unica persona che «sente» il racconto originale. Se lo esprime sufficientemente bene  e resta fedele a quello che sente, è probabile che lo farà piacere anche agli altri.
Anche gli altri personaggi sono disperati. Che cosa la attrae di queste vite desolate?
Non mi sento attratta da loro perché sono tristi, e non credo necessariamente che nessuno dei personaggi si senta particolarmente infelice. Quello che cerco di scoprire, soprattutto, è la consapevolezza che hanno di se stessi.  Billy e Spencer, in particolare, sono assai carenti da questo punto di vista, il che fa loro credere che quello che stanno facendo li condurrà alla felicità, mentre noi, in quanto lettori,  vediamo che stanno andando proprio nella direzione opposta. Tenessee non ha consapevolezza di sé perché è molto giovane, ma è disposto a imparare e a cambiare e diventa più consapevole man mano che il libro procede. Dixie è forse quella che ha maggiore autoconsapevolezza di tutti loro.  Le sono capitate delle situazioni difficili (ma accadono a ciascuno di noi, e non c'è modo di evitarle) e nella sua vita ha preso decisioni assolutamente sbagliate (e anche questo lo facciamo tutti), ma riesce a comprendere le conseguenze delle sue scelte, anche se non è in grado di fare quelle giuste al momento giusto. Per questo, lei è forse tra i personaggi quello più felice e definito.
Nel suo libro c’è una violenza sottile, livida, quotidiana, eppure fa più paura di quella, esplosiva e criminale, di un thriller.
Non so se sta chiedendomi «perché c'è violenza nel libro?» oppure «perché questa violenza sottile e quotidiana fa più paura?»; cercherò quindi di rispondere a entrambe le domande, che sono collegate l'una all'altra. Nel libro c'è violenza perché si tratta di un ritratto realistico di vite di questo genere. Dalla mia esperienza so che si tratta di un tipo di violenza abbastanza «normale», che molte, molte persone conoscono bene.  Perciò, se intendo ritrarre in modo realistico questo genere di personaggi, è necessario descriverne anche la violenza. Quanto al motivo per cui fa più paura  della violenza esplosiva e criminale che vediamo alla TV, credo che sia semplicemente perché si tratta di una violenza «di tutti i giorni».  La violenza nei thriller è come quella che c'è nelle fiabe: piacevolmente paurosa perché sappiamo che non  potrebbe davvero accadere a noi.  La sottile violenza di ogni giorno, invece, fa più paura perché sappiamo che potrebbe davvero capitarci. Non è solo qualcosa  di incapsulato in modo sicuro dentro un racconto.
La svolta nel romanzo si ha con il rapimento del bambino Tennesee da parte di Billy e Dixie. Di solito i bambini vengono rapiti per motivi famigliari, qui invece c’è una richiesta di riscatto.  Quanto sono diffusi i rapimenti  di questo genere?
Non conosco le statistiche, ma questo genere di rapimento è assai meno diffuso di quello che avviene per motivi famigliari. È più frequente in luoghi dove c'è una forte disparità tra ricchi e poveri, ed è prevalente in luoghi dove esistono forti conflitti ideologici o politici, o dove più in generale la società è meno  stabilizzata. 
A un certo momento tra Tennesee e Dixie si instaura un feeling.  Può essere riportato alla cosiddetta «Sindrome di Stoccolma» o è qualcos’altro?
Sì, sono certa che almeno in parte si tratti di «Sindrome di Stoccolma».  Tuttavia, mi piace anche pensare che ci sia qualcosa  di più oltre a quello.  Tenesee viene da un passato di privazioni dal punto di vista emotivo. Ha due genitori entrambi ossessionati e assorbiti da se stessi, che non nascondono il fatto di non averlo voluto, quindi lui non ha mai avuto esperienza di una persona adulta come Dixie, che trascorre del tempo dedicandosi solo a lui, parlando e giocando con lui, e che esprime chiaramente una preoccupazione per il suo benessere.
                                                                                  Diego Zandel
Torey L. Hayden, L’innocenza delle volpi, Corbaccio, pag. 353, €. 16,90

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/

domenica 11 marzo 2012

Cinque novità in libreria, da leggere

Qui Xialong
LA RAGAZZA CHE DANZAVA PER MAO
Marsilio
Un nuovo giallo dello scrittore cinese, inventore dell'ispettore Chen Cao della polizia di Shangai, indipendente dal potere quel che basta per rendercelo simpatico
Mirella Serri
SORVEGLIATI SPECIALI
Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)
Longanesi
Ebbene sì, anche nella repubblica italiana, c'era una sorta di Stasi, legata al potere americano, che controllava i cittadini. Nel libro della Serri i rapporti riservatissimi sugli intellettuali del tempo.

Emilio Barbarani
CHI HA UCCISO LUMI VIDELA?
Il golpe di Pinochet, la diplomazia italiana, e i retroscena di un delitto
Un diplomatico italiana, di stanza in Cile, si da da fare per salvare centinaia di prigionieri politici.

Alessandro Moscè
IL TALENTO DELLA MALATTIA
Avagliano
L'autore racconta la sua lotta contro una rara malattia. Non è soltanto una testimonianza. E' l'opera di un autentico scrittore.

Maria Jatosti
TUTTO D'UN FIATO
Stampa Alternativa
Il diario esistenziale di una scrittrice che considero tra le maggiori oggi. Una scrittura che affascina.


LADRO DI LIBRI: DA "LADRO DI LIBRI - AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE"

LADRO DI LIBRI: DA "LADRO DI LIBRI - AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE": 1 - EDUCAZIONE ALLA LETTURA Ho la casa piena di libri, di librerie che occupano le pareti dell’ingresso, del salotto, di un corridoio c...

DA "LADRO DI LIBRI - AUTOBIOGRAFIA DI UN LETTORE"

1 - EDUCAZIONE ALLA LETTURA


Ho la casa piena di libri, di librerie che occupano le pareti dell’ingresso, del salotto, di un corridoio che conduce alle camere, del mio studio.  I miei tre figli, Irene, Elena e Carlo, sono nati e cresciuti in questa casa. Hanno sempre vissuto in mezzo ai libri. Hanno visto il loro papà trascorrere gran parte del suo tempo con i libri in mano. Ogni tanto lo hanno visto indaffarato a sistemarli sugli scaffali, a riordinarli.
Nella loro vita potrebbero fare a meno dei libri? E, infatti, nelle case in cui vivono ora, le due figlie sposate hanno riservato ad essi il giusto spazio.
Ho tutti i motivi per ritenere che anche Carletto, ora sedicenne, quando avrà una sua casa, farà altrettanto. Già adesso, nella sua camera, ci tiene ad avere una libreria personale, distinta dalle mie, nella quale raccoglie i suoi libri. Tra questi, ce n’è anche uno della mia libreria che ha fatto suo. Si tratta di “Capitani coraggiosi” di Rudyard Kipling, un romanzo che mi aveva affascinato nell’adolescenza, e che per ritrovarne il sapore, qualche anno fa avevo preso a leggergli la sera, al momento di andare a letto.
Ho educato i miei figli alla lettura, all’amore per i libri, senza rendermene conto, trasmettendo loro in modo del tutto spontaneo questa mia passione.
Una passione che, una volta presa, non ti lascia più.
Questa premessa per dimostrare quanto l’esempio conti nell’educare i figli alla lettura (così come, del resto, a tutte le cose della vita, buone o cattive che siano). Ma se riteniamo che l’amore per i libri e la lettura sia un valore, i genitori, indipendentemente dalla propria abitudine e attitudine, del fatto che la lettura sia o meno per essi una pratica, potrebbero, intanto, provvedere a circondare i loro figli di libri. Se poi sono così bravi da dedicare del tempo ad essi, leggendo loro qualcosa, finché sono piccoli, magari la sera al momento di andare a letto, e poi, diventati più grandi, condividendo le scelte dei titoli, scambiando informazioni sulle letture svolte, incoraggiandoli, si sarà compiuta l’opera di formare altri lettori. So che Elena lo fa già con il suo bambino di quasi tre anni, il piccolo Diego, per il quale i libri – e ne ho le prove quando viene in casa da me – costituiscono già un’attrazione.
Io personalmente non ho memoria di letture che mi facevano i genitori. Però avevo due nonne che mi riempivano di racconti orali. Maria, la nonna paterna, una contadina istriana, la nonna che, nella lunga assenza di mia madre malata di tubercolosi e ricoverata in un sanatorio, mi ha allevato, era analfabeta e aveva avuto una vita dura da giovane. Subito in campagna a lavorare e, poi, a casa, una casa con il pavimento di terra battuta, mangiava solo dopo che i fratelli maschi s’erano saziati, se avanzava qualcosa, quindi a dormire, mica sul letto: sulla paglia, come bestie. Non c’era nessuno che le raccontasse le favole. E come poteva lei raccontarle a me? Mi raccontava però della sua vita, lassù, in Istria, nella campagna fuori Albona, la casa di Piculi Turini sull’altopiano, assolato d’estate, battuto dalla bora d’inverno, sopra la valle del fiume Arsa. I fratelli che, già adolescenti, scendevano in miniera. Quei pochi soldi a casa, col padre, li portavano loro. Cosa potevano contare le femmine come lei? Ma contavano poco per modo di dire, nella considerazione generale, non nei fatti. Che cosa avrebbero combinato i maschi senza le femmine che andavano a fare le braccianti in campagna e cucinavano e lavavano la roba per loro? La nonna neppure se ne rendeva conto. Accettava fatalisticamente il suo posto nella società, così come ha subito la Storia. Si sposa e va ad abitare a Fiume, perché il marito naviga. Fa sette figli. Di questi gliene muoiono quattro. Uno, Giuseppe, a tre anni, di difterite. Un altro, Ludovico, a 16 anni, suicida. Un’altra figlia, Veronica, muore per le complicazioni del parto del secondo figlio, lasciando così orfana a cinque anni la primogenita Clelia. Un’altra figlia della nonna ancora, Lidia, diciottenne, muore investita, mentre camminava tranquillamente sul marciapiede, da una jeep militare guidata da un partigiano di Tito a guerra appena finita, nel 1945. Ed anche il marito, mio nonno, marinaio con 35 anni di navigazione alle spalle, porti e città nel cuore, gli incontri con gli antifascisti a Marsiglia, anche lui muore, nel 1942, con la sua nave affondata dagli inglesi al largo delle coste tunisine. Lutti, che si portano dietro volti, parole, ricordi. Quelli erano i racconti della nonna. Ma non tutti carichi solo di tristezze. Ricordava anche di gioia  di quando s’imbarcava con il nonno, e potevano starsene soli in cabina. Una volta, nel pasteggiare con lei, il nonno aveva bevuto uno o due bicchieri in più di vino, un po’ inciuccandosi. Subito dopo doveva essere di turno in sala macchine, ma il suo secondo, al quale doveva dare il cambio,  vedendolo così allegro, gli aveva detto: “Torna in cabina con tua moglie, va, alle macchine ci penso io oggi”. Quante volte la nonna mi ha raccontato questo e altri episodi piacevoli? Lo ripeteva per la felicità che quel momento aveva dovuto rappresentare per lei…
E, poi, parlava della sua vita, sempre dietro ai tre figli rimasti, ciascuno con la sua storia, quella seguita all’esilio dall’Istria, da Fiume, con il passaggio di quella terra alla ex Jugoslavia. Vite, dopo il 1945, difficili, piene di stenti, nei campi profughi, col maggiore dei maschi, Tony, in carcere a Trieste, per collaborazionismo. La nonna che, dopo essere stata accanto alla moglie e alla figlia di lui, aveva dovuto raggiungere mio padre, il più giovane, fresco sposo appena ventenne, al campo profughi di Servigliano per via dell’aiuto da dare a  mia madre malata di tisi e incinta di me. Infine, dopo la mia nascita, il viaggio a Roma, al Villaggio Giuliano-Dalmata, per ricongiungerci con la primogenita Maria, già vedova a 31 anni, e le altre due nipotine. Lo avrebbe mai immaginato la bambina che correva scalza per i campi di Piculi Turini e Cugno, tra quel pugno di case sparse sull’altipiano sopra la Val d’Arsa, di finire in luoghi così lontani e diversi?
Ecco le “favole” della buona notte della nonna. Le favole che hanno nutrito la mia infanzia: nascevano tutte da quel mondo e da quelle persone perdute per sempre.
Quanto diversamente dall’altra nonna, Antonia, quella materna! Le ero ugualmente affezionato, anche se stavo con lei solo nelle poche settimane delle vacanze estive, quando andavo a Fiume. Sapeva leggere e scrivere ed era una grande affabulatrice. Lei si che le conosceva le favole, quelle vere, cioè quelle finte. Ci mettevamo seduti sulla porta che dava sull’orto, lei sulla sedia, io su una seggiolina, bassa, davanti a lei, le braccia incrociate sulle sue ginocchia. Una favola in particolare mi piaceva ascoltare “Alì Babà e i 40 ladroni”. Volevo che me la raccontasse tante volte. Non sapevo, allora, che era una favola de “Le mille e una notte”. Per quanto l’abbia poi molte volte letta, mai più ho ritrovato un “Alì Baba e i 40 ladroni” che possedesse la stessa forza d’incanto con cui la raccontava la nonna. Mi piaceva soprattutto il passaggio topico, in cui il capo dei ladroni, gabbatosi per mercante di olio, entra in casa di Alì Babà scaricando nel cortile le otri che al posto dell’olio nascondono i suoi uomini. E’ notte, l’olio dell’illuminazione è finita e la servetta di Alì Babà pensa di andarne a prendere un po’ nelle otri che il finto mercante ha lasciato nel cortile. Solleva il coperchio di una delle otri e sente una voce provenire dal fondo, quella di uno dei ladroni che, credendo che si trattasse del capo venuto ad avvertirli che era giunto il momento di agire, chiede “Xe ora?” (anche nonna Antonia naturalmente parlava in dialetto istriano come l’altra).
Io aspettavo trepidante questa fase del racconto, in cui la servetta veniva a scoprire l’inganno, la presenza dei ladroni che artatamente erano entrati in casa di Alì Babà per ucciderlo…  Forse era solo per quel momento, la sorpresa della servetta nell’udire quella voce, che le chiedevo di raccontarmi sempre quella favola, come piace ai bambini sentire sempre le stesse storie, che è la fortuna della serialità, come ha scritto Umberto Eco, parlando dei romanzi di Rex Stout, per cui il lettore vuole ogni volta ritrovare Nero Wolfe, con il suo fido e farfallone Archie Goodwin, e il cuoco Fritz e così via…
Mi sono accorto di questo meccanismo con i miei figli, quando a mia volta raccontavo loro le favole. Tra le tante, ne preferivano di solito una, quella con la quale poi sempre si addormentavano.
A Carletto raccontavo a mia volta principalmente “Alì Babà”, ma soffriva terribilmente quando i ladroni scoprono nella loro grotta colma di tesori il fratello avido di Alì Babà (che, eccitato da tanta ricchezza, s’era dimenticato la formula per aprire la grotta, cioè “Sesamo, apriti”) e lo squartano, mettendo ciascun pezzo del suo corpo ai quattro lati dell’ingresso… Di solito, per non arrivare a quel punto, si addormentava un attimo prima. Ed io non riuscivo più a raccontargli la storia per intero: il corpo squartato che viene recuperato  da Alì Babà, il calzolaio che, bendato, per non fargli vedere la strada, viene portato a casa di Alì Babà perché ricucisse le membra del fratello in modo da poter essere rivestito e lasciar credere alla gente (e ai ladroni) che fosse morto di malattia, così da non essere ricondotto all’uomo che era penetrato nella grotta; quindi, i ladroni che vanno alla ricerca di chi aveva portato via il cadavere, fino ad arrivare ad Alì Babà e, poi, passo passo, all’uccisione terribile dei ladri nascosti dentro le otri dell’olio;  e poi la fuga del capo dei ladroni, e il suo ritorno, tempo dopo, travestito, con la barba lunga, irriconoscibile, per l’estrema vendetta; ma la servetta, ancora lei, si accorge di un pugnale che il ladrone porta addosso, nascosto. E, allora, per distrarlo, si mette a danzare davanti a lui, lo ammalia con il suo corpo giovane, sensuale, fino a finire tra le sue braccia. Il capo dei ladroni l’accoglie, stringendola a sé, pensando a un’offerta d’amore, ma la servetta, fedele ad Alì babà, gli sfila il pugnale con il quale lui avrebbe voluto uccidere il suo padrone e lo ripaga della stessa moneta.
Certe favole è bello anche raccontarle, non solo ascoltarle: posso ben capire oggi mia nonna Antonia.
Carlo mi chiedeva questa o un’altra favola a seconda delle serate, del suo stato d’animo. La preferita, comunque, rimaneva “Nonna Abelarda”, la favola che avevo inventato io già con le sorelle e che è sempre stato il mio cavallo di battaglia.
“Nonna Abelarda”, nome preso da Walt Disney, ma senza nessun altro legame.
La vecchietta vive in campagna, tra tanti animali, il cavallo che fa “iihii”, l’asino che fa “iho, iho”, la capretta che fa “bee”, e così via facendo il verso per ogni animale, per finire con le galline. Di queste ne aveva dieci. Arrivata la sera nonna Abelarda le chiude nel pollaio, non prima, però,  di averle contate: una, due, tre… fino a dieci (un po’ per allungare i tempi del racconto, favorendo l’arrivo del sonno, un po’, se poi i bambini  non cedono ad esso, in funzione della sorpresa che verrà dopo).  Quindi torna a casa, si prepara la cena, mangia e, prima di mettersi a letto, legge un libro (mica guarda la televisione, scherziamo!). Infine, spegne la luce e s’addormenta. A un certo momento si odono dei passi, cauti, guardinghi… di chi saranno? Si sente il cancello del pollaio aprire, un cigolìo metallico, lento, un po’ rauco, di qualcuno che non vuol farsi sentire. E, infatti, nonna Abelarda non sente nulla. Dorme profondamente. La mattina dopo si sveglia, fa colazione (perché la colazione del mattino è molto importante), va al pollaio e scopre che le galline, a contarle e a ricontarle (“una, due, tre…”) sono ormai indubbiamente nove. Un grido. Capisce che quella notte è venuto un ladro. Decide così, per la sera successiva, di prendere il fucile e di mettersi a fare la guardia al pollaio. E, infatti, fa così. Ma passano le ore, una, due, tre…  e nonna Abelarda s’addormenta sulla sedia vicino alle galline.
Di nuovo i passi, il cigolìo del cancello. Quella notte c’è la luna piena e il ladro vede la figura di nonna Abelarda stagliarsi, nera, contro quella grande palla gialla. Tra l’altro russa piuttosto rumorosamente. Il ladro, cattivo, la colpisce alla testa. La mattina dopo nonna Abelarda si sveglia, ritrovandosi distesa a terra, con il sole alto, la testa dolorante e le galline che le zampettano intorno. Ohi ohi, si lamenta nonna Abelarda, che, con un cattivo presentimento,  conta le galline, una, due, tre… e scopre che ora sono otto.
A quel punto, decide di andare a comprare un cane da guardia. Si veste per andare in città - cappellino, borsetta, ombrello - e va alla fermata dell’autobus. In città si mette alla ricerca di un negozio di animali, lo trova e chiede un cane, che però non costi molto perché lei è povera e non può spendere molto. Il negoziante le risponde che a basso prezzo le può vendere solo un bastardino, molto intelligente ma per nulla addestrato a fare la guardia. Per lei va bene: le basta che abbaia agli sconosciuti.
“Oh, questo sì!” assicura il negoziante. Così, nonna Abelarda, lo compra e, fiduciosa, torna nella sua casa in campagna. La sera lo lega davanti al cancello del pollaio. Lei adesso è tranquilla: cena, legge, chiude la luce. Ed ecco che nel cuor della notte è svegliata dall’abbaiare del cane. Contenta di catturare il ladro, afferra il fucile, si mette addosso la vestaglia, prende la torcia elettrica ed esce di casa. Ma quando arriva nei pressi del pollaio, il cane non abbaia più. Anzi, con orrore lo vede agonizzante a terra, con mezza polpetta davanti alla bocca che esala l’ultimo, straziante guaito. Il ladro, evidentemente, ha dato da mangiare al cane una polpetta avvelenata. E poi, ne è certa, ha rubato un’altra gallina. Le conta… una, due, tre… e, infatti, adesso sono sette. Nonna Abelarda si arrabbia tanto, prende tutti i suoi risparmi e corre in città a comprare un altro cane, questa volta bravo, addestrato, non solo a fare la guardia ma anche a non prendere cibo dagli sconosciuti. La sera lo lega davanti al cancello del pollaio e…
A questo punto almeno una delle figlie, Irene, la più grande, s’era addormentata. Elena, la seconda, tignosa, per quanto assonnata, resisteva, voleva scoprire chi era il ladro, sempre che nonna Abelarda fosse riuscita a catturarlo. Carlo cercava di resistere pure lui…
Intanto, la vecchietta cena, poi si mette a leggere, come sempre, e quindi chiude la luce. Pensa un po’ al cane che è fuori a fare la guardia, quindi sbadiglia e senza accorgersene si addormenta… grr.. zz.. grr.. zz.. come dorme tranquilla! Così come, a quel punto, dormiva tranquilla anche Elena che, al pari della sorella, non avrebbe saputo come finiva la favola, ma soprattutto non veniva mai a sapere chi fosse il ladro.
Non so neppure io come finisce la favola. L’avevo inventata all’impronta e ripetuta mille volte senza arrivare al finale, che naturalmente è libero. Irene ed Elena il giorno dopo me lo chiedevano: “Ma chi è il ladro, papà?”. “Stasera lo saprete…”. Nel frattempo sono diventate grandi, si sono sposate, sono diventate mamme…
Anche Carletto, nato sedici anni dopo la secondogenita Elena, mi chiedeva di raccontargli  “Nonna Abelarda” che, a differenza di me, non invecchia  più di quanto già fosse nel passato.
A un certo momento, però, con Carlo, dal racconto orale sono passato alla lettura. L’ho deciso quando, alla fine della prima elementare, ho scoperto che aveva problemi di dislessia. Sì, proprio mio figlio… (come ne aveva Elena, ma ci sarebbe stato rivelato da lei quando era pressoché laureata, entrambi caratterizzati da una sorta di ambidestrismo, o meglio di mancinismo impuro, che sembra essere alla base della loro forma di dislessia). Così, insieme abbiamo letto il primo libro di Harry Potter, “Harry Potter e la pietra filosofale” di J.K.Rowling, per un omaggio alla moda e per soddisfare una precisa richiesta di mio figlio che ne aveva sentito parlare, per poi passare a un libro che mi aveva particolarmente rapito da ragazzo. Parlo de “La teleferica misteriosa” di A.F. Pessina, che avrebbe, comunque, entusiasmato anche lui.  
Gli avevo parlato da tempo di questo libro, la storia di cinque ragazzi, allievi di un collegio di montagna, che scoprono improvvisamente che la teleferica della miniera vicina, abbandonata da tempo, invece funziona. Come mai? Scoprono orme sulla neve fresca, altri indizi. Chi si nasconde nella miniera? Quali segreti cela? Le loro indagini sono due volte pericolose, per i rischi a cui possono andare incontro, e per il fatto di svolgerle di nascosto dagli insegnanti e dagli istitutori, infrangendo le ferree regole del collegio… Che brividi! Gli avevo parlato di questo libro e non riuscivo a trovarlo da nessuna parte. Eppure, da un’intervista a Mario Spagnol a “La Repubblica” avevo saputo che la Salani aveva stampato una copia anastatica della vecchia edizione. Ho cercato quel libro dovunque, poi mi sono deciso a chiedere un favore ad alcuni amici della Salani, che mi hanno accontentato mandandomi una delle ultime copie di magazzino. Ora il libro è allineato con tutti gli altri che Carletto sta raccogliendo e che comincia a leggere da solo perché, per fortuna, la dislessia si cura. Spero, anzi, che mio figlio finisca con l’amare ancora di più i libri di quanto li ami io, per rappresentare essi una doppia conquista.
Intanto, continuo a regalargli libri. Come facevano i miei genitori con me, anche se il loro era un modo di venire incontro ai miei desideri più che al loro. Mia madre ricorda sempre: “Quando eri bambino non avevi tanti giocattoli. Ti piaceva leggere e noi ti regalavamo libri”. Così, con la mia crescita, hanno cominciato a entrare in casa e a prendere via via sempre più posto nella mia cameretta, tanto da costringere i miei genitori a ordinare dal falegname quella che sarà la mia prima libreria: un mobile a parete composto di tre pezzi, uno fatto quasi interamente ad armadio e gli altri due, con la parte bassa riservata a ripostiglio e il resto a libreria
Io ho memoria di molti libri di fiabe. Di alcuni di essi ho presente anche la copertina o, se non quella, qualche illustrazione interna. Ricordo, ad esempio, la copertina di una fiaba intitolata “Povero ma felice”. Sullo sfondo interamente giallo era disegnato un vagabondo sorridente, con ai piedi delle cioce e i pantaloni vagamente alla zuava. Il vagabondo reggeva sulla spalla un bastone in cima al quale era annodato un fagottino. Era incamminato su un sentiero ai bordi del quale era piantato un cartello a freccia sul quale era scritto Grimm, il nome dei fratelli che avevano scritto quella fiaba. Non ricordo nulla di essa. Per molto tempo ho cercato di individuarla, per rileggerla, e su un libro dei Grimm che mi ha regalato mia figlia Irene “Le fiabe del focolare” l’unica che dal titolo ricordi quello lontano di “Povero ma felice” è “Il ricco e il povero”. Sarà la stessa fiaba? Io credo di si.
“Il ricco e il povero” racconta del tempo “quando il buon Dio errava ancora sulla terra” e, arrivato stanco, di sera, alla casa di un ricco commerciante, chiede ospitalità. Il ricco gliela nega. Allora Dio attraversa la strada per raggiungere la casupola di una famiglia povera, composta solo di marito e moglie, ai quali rivolge la stessa richiesta. E i due offrono subito al viandante addirittura il loro letto, mentre essi vanno a dormire sulla paglia. Il mattino dopo, Dio li vuole premiare offrendo loro la possibilità di esaudire tre desideri.
“Che altro devo augurarmi” risponde il povero “se non la salvezza eterna e che noi due, finché viviamo, ci conserviamo sani e possiamo avere il nostro pane quotidiano?”. Dio gli fa: “Non vuoi una casa nuova al posto della vecchia?”, e il povero dice naturalmente di sì, ed ecco che la loro casupola si trasforma in una bella casa con tutte le comodità.
Il ricco commerciante, quella stessa mattina, si affaccia alla finestra e scopre, con sua grande sorpresa, quella improvvisa trasformazione. Incuriosito, ed anche un po’ invidioso, corre subito presso i due poveri dirimpettai per sapere cosa era accaduto quella notte e si sente rispondere che, semplicemente, avevano offerto ospitalità a un viandante, il quale aveva poi chiesto loro di esprimere tre desideri che sono stati prontamente esauditi. Il commerciante, allora, inforca il cavallo e va subito alla ricerca del viandante, lo trova e si scusa per non averlo ospitato, accampando motivi inesistenti. E, a sua volta, chiede di poter esprimere anche lui tre desideri. Il buon Dio acconsente. “Va a casa” dice al commerciante “e i tre desideri che esprimerai saranno esauditi”.
Lungo la strada, il cavallo del commerciante un po’ si imbizzarrisce, lui non riesce a tenerlo a freno ed esclama: “Vorrei che ti rompessi il collo”. Di punto in bianco il cavallo stramazza a terra. Il primo desiderio, con suo cruccio, è esaudito. Ora gli restavano gli altri due. Rimasto a piedi, con il peso della sella e degli altri finimenti del cavallo sulla propria schiena, irritato, pensa alla moglie che invece se ne sta tranquilla a casa. “La vorrei seduta su questa sella e che non potesse scenderne, invece di trascinarmi io questo peso”, quasi inveisce. E subito lui resta senza più sella, che ritrova però a casa, quando ci arriva, con la moglie a cavalcioni di essa. Il secondo desiderio era esaudito. Non resta che il terzo. E quale può essere se non quello che la moglie, per servirlo, potesse scendere dalla sella? Le parole finali del racconto: “Così da quella storia egli non ebbe che stizza, fatica, ingiurie e un cavallo perduto. I poveri invece vissero felici, tranquilli e devoti fino alla santa morte”, lasciano credere che il racconto fosse proprio quello del mio ricordo e, quindi, il vagabondo che la copertina ritraeva altri non era che Dio.
Di altri libri di fiabe, ricordo anche la straziante copertina de “La piccola fiammiferaia” di Hans Christian Andersen, con la bambina morta sulla neve in mezzo ai fiammiferi che aveva acceso nel vano tentativo di riscaldarsi sotto la finestra illuminata di una casa in cui una famiglia festeggiava il Natale. Una favola, quella, che mi aveva molto impressionato. Avevo provato paura anche leggendo Pollicino, dei fratelli Grimm, del quale però possedevo una versione intitolata “Tredicino”, perché il fratellino che aveva udito i genitori decidere di portare e abbandonare i loro figli nel bosco era il tredicesimo della nidiata. E sarebbe stato lui a seminare i sassolini lungo il percorso per poi ritrovare la strada di casa. E paura mi fece “Hans e Gretel”, di cui ricordo l’illustrazione dei due bambini, anch’essi artatamente abbandonati dai genitori nel bosco, attirati nella casa di marzapane dalla vecchia strega cieca e cattiva che li avrebbe chiusi in gabbia per mangiarli. Voleva però prima farli diventare belli grassi. E ogni mattina si trascinava fino a loro per toccarli. “Hansel, sporgi le dita, che senta se presto sarai grasso”, ma egli, invece delle dita, le allungava un ossicino di pollo per farle credere che era ancora troppo magro, così prendendo tempo. Che terrore in quell’attesa!
“Tredicino”, “Hans e Gretel”… indimenticabili! Evidentemente, da bambino, restavo turbato dagli abbandoni. Quelli che, da neonato, avevo sofferto io a nove mesi di età, quando mia madre, malata di tisi, segnata dalla vita grama del campo profughi, dovette lasciarmi per essere ricoverata in un sanatorio. E la lettura, chissà, ha assunto per me una funzione materna. Oggi come ieri, con un libro in mano, non mi sento mai solo, mai abbandonato.
Mio padre che, con la nonna, mi è sempre rimasto accanto forse lo aveva intuito. Almeno una volta a settimana, io ormai adolescente, arrivava a casa dall’ufficio portandomi un libro, un romanzo. Lavorava a Roma, in via Barberini. Ci arrivava con la metropolitana, che all’epoca aveva il capolinea a Stazione Termini. Per raggiungere il suo ufficio la mattina, e poi tornare a casa la sera, era costretto a passare sempre per le bancarelle di libri di piazza della Repubblica (ci sono ancora, ma all’epoca quella serie di bancarelle venivano chiamate “Fiera del libro”). A quel punto mi comprava un libro. Ciò rendeva molto più bello il suo ritorno…
Non so quale criterio usasse nella scelta dei titoli e degli autori. Doveva forse fare affidamento sulle sue reminescenze scolastiche, molto scarse per altro: aveva lasciato giovanissimo la scuola per andare a lavorare e poi, a 19 anni, per la guerra in corso, essere arruolato. E le sue reminescenze non potevano rifarsi che ai classici, quelli però più popolari e diffusi tra i ragazzi della sua generazione. Alexandre Dumas, con la trilogia de “I tre moschettieri”, “Vent’anni dopo” e “Il visconte di Bragelonne”, e poi, naturalmente anche “il conte di Montecristo”. Poi Hugo. Il primo titolo di questo autore che mi aveva regalato fu “L’uomo che ride”. Mi portava anche molti feuilleton, che molti anni dopo, pur cercandoli, non ho più ritrovato, come “Il fiacre n° 13” di Saverio de Montepin, storia appassionante di un trovatello abbandonato proprio sul fiacre di cui il titolo… Erano tutte edizioni economiche, ovviamente. Non eravamo così ricchi da poterci permettere libri più costosi. Tra questi, quello più lussuoso lo ricevetti in regalo dal direttore di un negozio di abbigliamento di via Barberini, Beltrame, che forniva le divise blu ai commessi dell’Adriatica Navigazione  dove mio padre lavorava e del quale anche privatamente eravamo diventati clienti, grazie al fatto che potevamo pagare a rate i vestiti che compravamo lì. Il libro era “Il principe e il povero” di Mark Twain, comprensivo di illustrazioni colorate. Raccontava una storia che, mentre la leggevo, mi angosciava moltissimo: non riuscivo proprio a sopportare che il principe, scambiato il suo ruolo con il sosia povero, non potesse essere creduto quando affermava di essere lui il vero principe… Credo, per questo, di non essere mai riuscito a portare a termine la lettura.
Tra gli autori che mi aveva portato mio padre, il più importante per me fu Kipling, quello di “Capitani coraggiosi”, anche se prima ancora, nella edizione per ragazzi, con le illustrazioni, avevo letto i suoi libri della Jungla. Ma “Capitani coraggiosi” è stato un libro che ha rappresentato una vera e propria svolta nei miei gusti. Perché d’allora la mia predilezione va ai romanzi di formazione, quelli che insegnano cos’è la vita, indicano le possibili strade per affrontarle, e lo fanno nelle condizioni, paradigmatiche, dell’avventura e con personaggi, uomini o ragazzi, soli, come Harvey, il protagonista di “Capitani coraggiosi”. Avventura che, col passare degli anni, ha preso altre forme rispetto a quelle tipiche, commisurate all’azione e al mistero, dell’infanzia e dell’adolescenza. E’ diventata l’avventura del vivere, del saper cogliere i passaggi che danno senso, significato all’esistenza.
Anche se il mio atteggiamento verso la lettura era, ovviamente, ancora del tutto spontaneo. Come ricorda Maurizio Bettini nel suo “Con i libri”[1]: “Non mi sono mai chiesto che cosa ci si dovesse fare con ‘Capitani coraggiosi’ (ma guarda la coincidenza!), lo leggevo e basta”. E più avanti: “Quando c’era cibo per tutti senza che si dovessero coltivare i campi, c’erano vino e latte perché zampillavano spontaneamente dalla terra. Gli uomini allora non si domandavano che cosa ci dovessero fare con il mondo che avevano intorno, non pensavano né di trasformarlo né di sfruttarlo. Ci vivevano e basta. Così era nella mia età dell’innocenza, quando leggevo i libri solo per leggerli, perché c’erano, a portata di mano, e davano piacere”.
Era un piacere, e tale è rimasto, perché liberava emozioni che, altrimenti, uno avrebbe magari tenuto dentro. Cosa significavano le lacrime che mi si sciolsero, quasi a dirotto, dopo la lettura de “Il giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett, un libro in cui, come scrive lo psicobiologo Alberto Oliveiro in “L’arte di imparare”  “venivano esplorati nuovi spazi e si individuavano porte nascoste”?
Nel caso del libro di Hodgson Burnett era la scoperta che la vita è anche morte e dolore, ma in altri casi potevano essere altre le porte nascoste.
A riguardo, verso i 14 anni, restai folgorato da un altro libro, trovato a Trieste, a casa di zia Vittoria, una zia di mia madre, sorella di nonna Antonia. Questa aveva una piccola biblioteca lasciata dal figlio unico, Luciano, che un giorno, dopo aver preso il diploma all’Istituto nautico, era improvvisamente scomparso, fuggito da casa, senza dire nulla ai genitori, per non avere ostacoli, dinieghi. Zia Vittoria era una di quelle madri sempre incombenti. La domenica, lei e il figlio andavano in giro per il Carso, a Miramare, Duino. Luciano, divenuto grande, probabilmente a un certo momento doveva aver sentito il bisogno di tagliare il cordone ombelicale. Inutile rivelare i suoi sogni o programmi per il futuro: zia Vittoria gli sarebbe andata dietro in capo al mondo, non lo avrebbe mai lasciato solo. E così l’unica soluzione per lui, doveva aver pensato, era quella di andarsene senza rivelare la meta, scomparire almeno per un po’, quel tanto da mettere una grande distanza tra lui e la madre… Poi, una volta compiuto il passo, Luciano evidentemente non voleva farsi vivo subito, per non essere richiamato o raggiunto. Il silenzio dovette apparirgli l’unica soluzione, magari, pensava, fino a che non si fosse sistemato. Ma poi, trascorsi gli anni, chissà, il senso di colpa nei confronti dei genitori, in particolare la madre, la vergogna, il timore per una loro reazione scomposta, dovevano aver agito su di lui. Non un segnale, una lettera, niente. Neppure a parenti e amici. Finché una cugina, emigrante in Australia, lo aveva incontrato per caso laggiù. Nel frattempo, però, erano trascorsi ben lunghi, infiniti dodici anni da quando se n’era andato da casa. Anni durante i quali zia Vittoria aveva tenuto tutte le cose di Luciano così come le aveva lasciate, nella speranza di rivederlo presto tornare. E proprio lì, nella sua piccola biblioteca, pescai, io quattordicenne, il libro di un autore per me allora sconosciuto, Ernest Hemingway. Il libro era “Per chi suona la campana?”. Un romanzo d’avventura, certo, ma anche questo, come già “Capitani coraggiosi”, di iniziazione, sentimentale, politica, tutto. Quale migliore esplorazione di nuovi spazi e scoperta di porte nascoste se non quel libro che in quei giorni di vacanza triestini avevo letto di un fiato? Forse fu la prima volta in cui scoprii il sesso nelle pagine d’amore tra Jordan e Maria, loro due insieme nella scena del sacco a pelo. Zia Vittoria s’era accorta della passione con la quale avevo divorato il libro e ne parlavo che prese l’iniziativa, incredibilmente, di regalarmelo, privandosi così di un oggetto che apparteneva al figlio. Io non potei non sentire il valore pieno di quel gesto straordinario. Conservo ancora quel libro, nella edizione Mondadori, numero 166 della famosa collana della “Medusa”, tredicesima edizione, stampata nel luglio del 1951, per la traduzione di Maria Napoletano Martone.
Un libro grazie al quale, tra l’altro, Ernest Hemingway diventò per me lo scrittore culto. Non solo presi a leggere tutti i suoi romanzi, ma anche a cercare libri che parlassero della sua vita, del suo modo di lavorare, che mi spiegassero come erano nati, oltre a “Per chi suona la campana”, gli altri suoi romanzi, da  “Addio alle armi” a “Fiesta”, per dire di altri due romanzi di Hemingway che mi avevano colpito (“Fiesta”, poi, con quel protagonista, Jake Barnes, ferito nella propria sessualità che turbava il passaggio incerto all’adolescenza, con il timore delle prime esperienze sessuali, di non essere all’altezza, come lui con Brett, nelle prove richieste). Un processo lento. Il primo saggio su Hemingway, il primo di critica letteraria, che lessi in assoluto, fu quello pubblicato da Feltrinelli nella collana di monografie “La biblioteca ideale”, che riproponeva quella di Gallimard curata da Robert Mallet, mentre quella italiana era a cura di Oreste Del Buono. Il titolo era, semplicemente, “Hemingway” a cura di John Brown e Livia Livi[2], corredato, tra l’altro, di splendide fotografie in bianco e nero dello scrittore (come non amarlo, anche solo per quel suo physique du role, che d’allora incarnò per me il prototipo della figura dello scrittore?).  Avevo 16 anni. Della stessa collana, subito dopo, avrei letto altre due monografie, “Moravia”[3], del quale cominciai a leggere i romanzi, e “Simenon”[4], con la sua alacrità, i suoi tic, la sua capacità inventiva.
Da quel momento, leggere divenne non più solo una passione, ma anche una forma di autoeducazione, inevitabilmente una perdita di innocenza che però ritrovo ogni volta che m’imbatto in un romanzo, in un autore che ha la forza di estraniarmi.
Mi chiedo solo: dov’era la scuola in tutto ciò?
Personalmente, in tutto il mio ciclo scolastico, ho ricordo di una insegnante soltanto che ha cercato di avviare noi alunni all’amore per la lettura. Era Gioiella Englen, figlia del grande poeta gradese Biagio Marin. Fu la mia insegnante alle scuole medie e, spesso, ci leggeva brani di libri che l’avevano toccata. Ad accomunarci sarà stato il fatto che eravamo entrambi due giuliani a Roma, ma io mi sentivo molto in sintonia con gli autori che ci presentava. In particolare ricordo la lettura di un libro scritto da suo fratello Falco, morto in guerra, in Slovenia, il 25 luglio del 1943. Il padre ne aveva raccolto gli scritti. E Gioiella, con voce commossa, ci leggeva brani di essi. Ricordo i nostri occhi che s’incontrarono, i suoi lucidi di commozione, nel momento in cui, nel silenzio che s’era fatto nella classe, li sollevò dalla pagina e richiuse il libro nelle mani.
Credo, però, anche, che quell’attenzione che il testo era riuscito a suscitare in me si inserisse in una passione preesistente per la lettura, quasi una predestinazione, testimoniata dal fatto che i miei genitori mi regalavano libri perché avevano scoperto il piacere che mi procuravano.
Comunque, è certo che, al di là della casualità, della spontaneità, con la quale uno si appassiona alla lettura, a dare consapevolezza della importanza che essa riveste nella formazione della persona deve essere la scuola. Un’istituzione del genere non può lasciare l’educazione alla lettura al caso. Tutti gli insegnanti devono imparare le tecniche di seduzione che possono spingere un alunno verso l’amore per i libri. Purtroppo, però, c’è da dire, desolatamente, che nella scuola ci sono insegnanti, forse la maggioranza, che a loro volta non amano i libri, non amano la lettura. E questo è grave, perché, per citare quanto due studiose, Serena Fornasiero e Silvana Tamiozzo Goldmann hanno scritto nella loro ricerca “Leggere”[5]: “nella scuola di massa l’insegnante è spesso l’unico tramite tra lo studente (che può venire da situazioni familiari difficili, in cui è già molto se in casa c’è l’elenco telefonico) e il libro.”
A questo punto, educare alla lettura non vale solo per i bambini, ma anche per gli insegnanti. Anche se poi, alla fine, la passione per la lettura probabilmente arriva, come l’amore per una donna (o un uomo), come l’innamoramento, per altre strade misteriose.
Come quelle che, ad esempio, hanno portato all’amore per la lettura una giovane cugina greca di mia moglie, Iannulla. Figlia di poveri contadini semianalfabeti, vive nell’isola di Kos, in un villaggio sperduto di montagna  chiamato Asfendiou, dove trascorriamo le estati. Priva di mezzi economici, prende i libri in prestito dalla piccola biblioteca di un villaggio vicino, Pilì, e solo al mio arrivo può rifornirsi di libri propri, che io acquisto con la stessa gioia che provo quando li acquisto per me e che ritrovo in lei, nel suo sorriso, ogni volta che torno da Kos città portandole, come faceva mio padre con me, uno o più libri, gli stessi, in lingua greca, che erano piaciuti a me. Raramente capita che Iannulla scenda con me e, insieme, ci mettiamo a cercare tra gli scaffali. Quando capita, però, sono curioso di scoprire i libri, gli autori che desidera, di sua spontanea scelta. Una volta ha voluto Toni Morrison, della quale aveva sentito parlare per aver vinto il premio Nobel. Forse aveva saputo che questa scrittrice narra i sogni e le tensioni all’interno delle piccole comunità nere, così come è una piccola comunità quella del villaggio in cui Iannulla vive… Un’altra volta, aveva scelto un libro di tutte le poesie di Ghiannis Ritsos.  Un giorno ho scoperto che anche lei scrive poesie…
Da quale fonte deriva, chi le ha trasmesso questa passione? Non certo i genitori, né, probabilmente, la scuola…
Tante volte penso di essere stato io la fonte. Il caso ha voluto che quando lei doveva nascere e alla madre cominciarono le doglie, 25 anni fa ormai, io mi trovassi lì, con mia moglie, le figlie, mia suocera e le sue sorelle, unico uomo in casa. Gli altri erano tutti via, nei campi o altrove. Io me ne stavo tranquillamente a leggere sotto il gelso in fioritura in quella primavera. Mia suocera mi chiamò.
“Attulla ha le doglie, c’è da portarla in ospedale. Corri a chiamare un taxi!”
Così corsi all’unico telefono pubblico del villaggio, al magazzino, unico negozio, di Michalis, aspettando poi lì, con l’ansia che il taxi arrivasse in tempo, da Kos città. Quando arrivò, salii a bordo accanto all’autista per indicargli la strada di casa. Vedemmo Attulla, mia suocera e zia Stavrulla venirci incontro e prendere posto nel taxi. Cominciammo a scendere, curva dopo curva. Io mi preoccupavo per la partoriente e  il nascituro, come se fosse mio. Non sapevo ancora che si trattava di Iannula, che sarebbe nata da lì a poco.  E, forse, chissà, per uno di quei misteri che rendono magica la vita, proprio durante  il tragitto, per quel sentimento che provavo, le trasmisi il virus inguaribile della lettura.



[1] Maurizio Bettini, “Con i libri”, Einaudi, Torino, 1998
[2] John Brown e Livia Livi (a cura di), Hemingway, Feltrinelli, Milano, 1964
[3] A cura di Oreste Del Buono, Moravia, Feltrinelli, Milano, 1962
[4] A cura di Bernard de Fallois, Feltrinelli, Milano, 1962
[5] Serena Fornasiero, Silvana Tamiozzo Goldmann, “Leggere, come capire, studiare, apprezzare un testo”, Il Mulino, 1999