giovedì 31 maggio 2012

LADRO DI LIBRI: SOTI TRIANTAFILLOU, TRADOTTO UN SUO ROMANZO IN ITA...

LADRO DI LIBRI: SOTI TRIANTAFILLOU, TRADOTTO UN SUO ROMANZO IN ITA...: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 31 – 5- 2012 Quattro stagioni per il detective Malone dell’autrice ellenica Soti Triantafillou IL GROSSO GRAS...

SOTI TRIANTAFILLOU, TRADOTTO UN SUO ROMANZO IN ITALIA DA GIUSEPPINA DILILLO

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 31 – 5- 2012

Quattro stagioni per il detective Malone dell’autrice ellenica Soti Triantafillou
IL GROSSO GRASSO INTRIGO CINESE D’UNO SBIRRO AMERICANO (E GRECO)
Edito da Voland nella efficace traduzione della lucana Dilillo

di Diego Zandel

Il titolo: “Scatole cinesi”, e il sottotitolo: “Quattro stagioni per il detective Malone” di Soti Triantafillou, edito in Italia da Voland nella efficace traduzione della lucana Giuseppina Dilillo, lasciano sospettare che il romanzo, seppur scritto da una delle maggiori e più versatili scrittrici greche, non sia di ambientazione greca. E, infatti, fin dalla prima pagina ci si trova a New York, inizio anni Novanta, dove si svolgerà l’intera storia nell’arco di quattro stagioni, dall’estate alla primavera successiva. Non è un caso: l’autrice ha trascorso anni di studio e di lavoro negli Stati Uniti, dove ancora vive parte dell’anno, insegnando, titolare di varie docenze di cui  è significativa, alla luce di questo romanzo, quella di Storia del cinema, sul quale scrive anche su Athens Voice e Book Press.
Titolo e sottotitolo evidenziano anche che abbiamo a che fare con un giallo. Ebbene, la conoscenza dell’ambiente, della grande narrativa hard boiled e del cinema che ne è stato prodotto è tale da consentirle di manipolare, con un uso accorto dell’ironia, gli stereotipi, a cominciare dai nomi dei personaggi, in gran parte anch’essi cinematografici, restituendoci un’opera originale e divertente qual’è  “Scatole cinesi”.
Tutto qui richiama Chandler. L’investigatore privato Stuart Malone (stesso cognome del poliziotto de “Gli uomini preferiscono le bionde”), ex poliziotto caduto in disgrazia per il poco patriottismo dimostrato quando era soldato in Vietnam (“E chi sono io, eh? Jane Fonda?”), ma anche  perché faceva sempre di testa sua e non rispettava “le consuetudini della squadra”. Un isolato, insomma, con ufficio a Chinatown, fissato con gli oroscopi e l’erboristeria cinesi e il feng shui, che vive nella perpetua nostalgia della ex moglie Allison, che l’ha lasciato per sposare un macellaio e trasferirsi nel Connecticut: ormai era pervenuto alla conclusione che l’amore tra lui, nato nell’anno del bue, e Allison, lepre, non poteva durare. “Il bue presenta affinità solo con il serpente e il gallo. Al limite con il topo”. Malone così si barcamena alla meglio tra il bar di Jake, con il quale filosofeggia bevendo whisky, e il negozio di erbe medicinali del vecchio saggio cinese Ki-Young, che gli risponde col silenzio o quasi. Per fortuna ha una segretaria, Deni Lamour, che si presterà ad alcune ricerche, rivelatesi poi pericolose, di un certo Hank Cassidy, la cui scomparsa Malone cerca di interpretarla con la numerologia cinese, che Deni “considerava roba da dissennati”, se non altro perché “i numeri significavano qualcosa nel cantonese e il contrario nel mandarino e Ki-Young interpretava i sogni in un modo che si scontrava con la logica comune”. Non manca  la rivalità con i poliziotti  dei due distretti a maggior densità criminale (Rudolf Giuliani deve ancora arrivare a mettere ordine) in cui Malone ha l’ufficio, cioè il 5°  di Chinatown e il 41° del South Bronx, “noto  come Fort Apache”. Quanto ai nomi dei poliziotti, sono O’Hara, Savini,  Manzanira, Bullock. Una rivalità che poi non mancherà di dare prova di collaborazione quando l’intraprendete Deni Lamour, scoperta la fine di Cassidy, si troverà  invischiata in una ambigua storia d’amore con un tipo appartenente a una banda di nazisti del Nebraska, chiamata “Pugni a martello”, il cui capo è un certo Doctor Strangekiss il quale “in un’adunanza patriottica aveva dichiarato, tra le altre cose, che starsene al sole per abbronzarsi era tradimento contro la razza bianca, la sporca abitudine dell’abbronzatura era una conseguenza della cospirazione ebraica”. Gente ridicola, usa a riti celtici, ma verso la quale l’autrice pur usando tutta la sua ironia, non manca di evidenziare il carattere pericoloso. Si verrà, infatti, a sapere che sono stati loro a uccidere Cassidy, mentre Deni Lamour, che vuole sapere troppo, rischia di fare la stessa fine. E sarà questa a scuotere finalmente Malone dal torpore, e fargli dare una svolta alle indagini. E all’amore (con i giusti segni zodiacali).
                                                                                  Diego Zandel
       
Soti Triantafillou, Scatole cinesi, Voland, pag. 211, €. 14,00       

domenica 27 maggio 2012

LADRO DI LIBRI: DELITTO E CASTIGO CON ARTI MARZIALI IN "IL GUARDIA...

LADRO DI LIBRI: DELITTO E CASTIGO CON ARTI MARZIALI IN "IL GUARDIA...: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 26-5-2012 IL CRONISTA M.CORVINO TORNA SUL LUOGO DEL CRIMINE DELITTO E CASTIGO CON ARTI MARZIALI “Il guard...

DELITTO E CASTIGO CON ARTI MARZIALI IN "IL GUARDIANO" ROMANZO DI MASSIMO LUGLI

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 26-5-2012
IL CRONISTA M.CORVINO TORNA SUL LUOGO DEL CRIMINE
DELITTO E CASTIGO CON ARTI MARZIALI
“Il guardiano” di Massimo Lugli
di Diego Zandel

Cintura nera di karate, maestro di Ta chi chuan, Massimo Lugli ambienta il suo nuovo romanzo “Il guardiano”, edito da Newton&Compton  nel mondo delle arti marziali. Protagonista, come già nei romanzi precedenti “Il Carezzevole” e “L’adepto” il cronista di nera Marco Corvino, al quale l’autore, giornalista, presta molto di sé, se non della sua vita privata, sicuramente di quella che ha a che fare con la redazione di un giornale e la questura romana, dei quali ha un’esperienza di vita ultratrentennale. Divertente, oltre che molto interessante, per personaggi, riti, gergo, umori e amori, il ritratto che dei due ambienti viene fuori da questo romanzo che, al pari degli altri di Lugli, è particolarmente avvincente.
Tutto comincia con il ritrovamento di un cadavere nudo fatto a pezzi, monco in una forma però strana ed esperta, che alla polizia, sulla base dei vari precedenti, risulta anomala. La pista porterebbe a un camionista francese che, nel suo paese, aveva ridotto in condizioni simili una donna. Che l’omicidio sia avvenuto ora in Italia lascia supporre che il camionista, per il suo lavoro fatto di continui spostamenti, abbia commesso il delitto a Roma. E la probabilità che l’assassino sia proprio il camionista lo lascia presupporre il fatto che egli sia scomparso: camion trovato abbandonato, telefonino muto e irrintracciabile. Ma il lettore, prima ancora della polizia, e di Marco Corvino che da cronista segue il delitto, sa che quel cadavere fatto a pezzi appartiene a un karateka, membro di un dojo, come si chiamano le palestre di arti marziali, dominato da un sensei, un capo, che ha creato un gruppo di samurai  -italiani che hanno assunto nomi giapponesi - rigidamente gerarchico, basato sull’obbedienza assoluta, fedeltà e devozione, pena una morte orribile: o attraverso un seppuku, cioè suicidio con la spada, o attraverso un combattimento con spade affilatissime nel corso del quale l’allievo inevitabilmente si trova fatto a pezzi dalla straordinaria abilità del sensei.
Non sarà l’unico cadavere della storia, quello. E per tutto il romanzo le pagine che raccontano la cruda vita nel dojo di questa  “Scuola dei senza nome” come viene chiamata, si alternano alle indagini della polizia e a quelle, personali, intuitive, ma anche di esperto di arti marziali, di Marco Corvino, con efficacia narrativa tutta improntata a un crescendo della suspense.
In filigrana, ma con una densità che serve a dare spessore al protagonista e agli altri personaggi di contorno - in particolare la moglie di Corvino, la poliziotta Lucrezia, ex amante del giornalista, che gli dà le dritte necessarie per fare i suoi scoop, e il rapporto tutt’altro che amichevole con il proprio caposervizio in redazione – emergono  elementi di vita privata che rappresentano il lato umano, quotidiano, dell’io narrante, cioè Corvino stesso. In questo quadro Lugli calca la mano su una sorta di vita eroica del giornalista, in particolare del cronista di nera, sempre sulla notizia, e per essa pronto, anche contro la propria volontà, a sacrificare gli affetti famigliari, dedito com’è a una vita irregolare, senza orari, incompresa, in questo caso dalla moglie, carica di sensi di colpa per la scarsa presenza con gli eventuali figli, com’è per Corvino nei confronti di suo figlio e così via. Molte e ben distribuite, inoltre, le nozioni sulla filosofia che sta alla base delle arti marziali e che aiutano il lettore inesperto a orientarsi in questo straordinario mondo. 
Il finale porterà Corvino nel covo della Scuola dei senza nome. Anzi, saranno i loro adepti a farsi vivi con lui, sulla base degli articoli che scrive e dai quali traspaiono elementi che possono smascherarli. Il codice d’onore del fanatico sensei offre al giornalista la possibilità di salvarsi combattendo con lui una lotta mortale. Ma gli esiti saranno imprevedibili.
                                                                       Diego Zandel
Massimo Lugli, Il guardiano, Newton&Compton, pag. 316,€. 9,90      


venerdì 25 maggio 2012

LADRO DI LIBRI: TECNICHE DI LETTURA

LADRO DI LIBRI: TECNICHE DI LETTURA: 3 – TECNICHE DI LETTURA Il desiderio di leggere quanti più libri è possibile non ha a che fare solo con il tempo e la sua organizzazion...

TECNICHE DI LETTURA

3 – TECNICHE DI LETTURA


Il desiderio di leggere quanti più libri è possibile non ha a che fare solo con il tempo e la sua organizzazione, ma anche con la velocità di lettura. In questo senso,  fin da ragazzo ho cercato di imparare tecniche, metodi, segreti, che mi consentissero, nel tempo a disposizione, di esaudire quel desiderio, in considerazione anche del fatto che ogni giorno, oltre ai libri, dedico parte del mio tempo alla lettura di due quotidiani,  di almeno un paio di mensili, e di qualche altro periodico, per non parlare dei tanti testi, documenti, messaggi e quant’altro arriva tramite internet.
Per quel che riguarda la stampa, con gli anni mi sono formato una tecnica divenuta spontanea che, comunque, credo sia praticata dalla maggior parte delle persone. E cioè quella di soffermarmi solo su quegli articoli, notizie, argomenti che maggiormente mi interessano o, per loro natura, necessitano di particolare attenzione e approfondimenti. Non si può leggere tutto il giornale da cima a fondo. Ciò richiederebbe un impegno di tempo eccessivo, debordante, soprattutto quando i giornali sono di norma, come nel mio caso, più di uno. Così scorro i titoli, i sommari e, sulla base di questi, decido se dedicarmi o meno alla lettura integrale dei singoli  articoli. Su internet, dove la spazzatura è maggiore, il processo è più o meno lo stesso con eliminazione immediata di quanto non ritengo utile e interessante.
Ma per i libri, come procedere? Come coniugare il tempo che resta con la mole di volumi che si accumulano, che sugli scaffali sono lì in attesa, ansiosi di essere letti? 
Quanta invidia provo per quelle persone che riescono a leggere addirittura un libro al giorno! Perché esistono: Vittorio Sgarbi, ad esempio, o Andrea G. Pinketts e, nel passato, Franklin D. Roosevelt, che ne leggeva addirittura tre al giorno, o la scrittrice Irene Brin, alias Maria Vittoria Rossi.  Come fanno, come facevano?
Naturalmente, dove cercare queste risposte se non, ça va sans dire, nei libri che promettevano di insegnare a leggere? A riguardo, ne ho letti tanti, ma in pratica, due sono stati quelli che mi sono risultati davvero utili: il primo, e forse perché è stato il primo in assoluto che ho letto, è stato “Saper leggere” di Giuseppe Prezzolini (l’edizione in mio possesso, edita da Garzanti, è la quarta, del novembre 1966, per dire a quale età già mi preoccupavo di risolvere in qualche modo il problema), quindi “La lettura strategica” sottotitolo “Tecniche cognitive per leggere di più e meglio” di Graziella Tonfoni e Giuseppe Tassi,  edito da Mondadori informatica.
Si tratta di libri che, al contrario di altri analoghi per argomento, non insegnano le cosiddette tecniche, che trovo inutili a meno che non si sia disposti a praticare i noiosi esercizi che esse richiedono. Offrono, al contrario, consigli e, quindi, motivi di riflessione sul nostro approccio alla lettura, contribuendo così, eventualmente, a cambiarlo, migliorandolo.  
Gli elementi base dai quali tutti partono, comunque, sono due: il primo, propedeutico, consiste nel pianificare un programma minimo di letture; il secondo, fondamentale quando la lettura non è finalizzata a ragioni di studio ma di puro piacere, è quello di cercare di adeguare il grado di attenzione critica e disponibilità verso il libro, mutandola semmai nel corso della lettura stessa, a seconda della risposta più o meno attesa dal libro.
Naturalmente ci sono stati dei nodi da sciogliere prima. Ad esempio, da giovane, ma anche più tardi, da adulto, uno dei problemi che più mi ponevo, rispetto al tempo complessivo di cui disponevo, era se leggere un libro alla volta oppure più libri parallelamente. Per tanto tempo sono andato avanti alternando le combinazioni, ma entrambe avevano dei limiti. Nel dedicarmi a un libro unico, se questo appariva noioso, il limite era quello di dover aspettare di finire di leggerlo prima di cominciarne altri tra quelli che intanto,  accumulandosi, premevano per essere letti;  se, viceversa, decidevo di leggere più libri alla volta, si andava creando  una certa confusione dovuta all’affastellamento di opere e autori, ma soprattutto una superficiale  immersione, uno scarso abbandono nei confronti dei singoli libri. E, allora, ecco che tornavo alla lettura di un libro soltanto, tanto più se, nel leggere più libri contemporaneamente, trovavo quello che mi prendeva. Allora tornavo alla decisione di leggere un libro alla volta, credendo, ogni volta, di tornare alla decisione definitiva. Pura illusione, la danza continuava: se il libro unico che leggevo era bello non mi interessava passare alla lettura multipla, se era noioso mi sembrava di perdere tempo e passavo così alla lettura multipla e viceversa. Ero senza pace, e nella inquietudine perdevo tempo. Dovevo trovare una soluzione che contemplasse i due propositi: leggere bene un libro e, nello stesso tempo, non aspettare di leggere gli altri. Alla fine, come ho anticipato nel capitolo precedente, una soluzione biunivoca l’ho trovata distribuendo la lettura dei singoli e diversi libri in diversi momenti della giornata e della settimana: il libro del pomeriggio, il libro della sera, quello del weekend. Un quarto tempo è quello delle vacanze, per le quali c’è un ulteriore aggiustamento e combinazione, che vedremo. Sulla lettura multipla o parallela mi resta, però, una cosa da dire e cioè che può avere una proficua funzione di scouting, al fine di individuare, tra i tanti disponibili, un libro presumibilmente gradito, la cui lettura appaia piena e totalizzante, in grado di escludere, magari definitivamente, le altre.
Ma, detto ciò, resta ancora la domanda: cosa fare concretamente per leggere più libri, per non affogare nel mare di proposte e, insieme, efficacemente navigare tra esse, per meglio selezionare, e quindi, di conseguenza escludere?
Ecco, allora,  arrivare in aiuto i consigli di Prezzolini e della Tonfoni, i quali hanno avuto il merito, se non proprio di aprire spiragli nuovi, perlomeno quello di rafforzare, grazie al credito scientifico o semplicemente empirico di cui godevano da parte mia, atteggiamenti di lettura che avevo già intuito essere giusti ma ero restio a mettere in pratica.
“Saper leggere” di Giuseppe Prezzolini[1]  è un testo articolato che arriva a parlare di tecniche di lettura solo al capitolo tredicesimo, a pag. 133, quasi a metà del libro. Fino a quel punto il grande scrittore ha disquisito sull’importanza della formazione culturale in genere, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Ha parlato degli strumenti necessari alla pratica, dall’apprendimento della lingua per una corretta espressione alla scelta delle antologie, dall’uso dei dizionari e delle enciclopedie alla frequentazione delle biblioteche ed altro, per arrivare poi al punto che qui interessa: “Delle operazioni necessarie alla cultura, la principale è leggere: osservare il mondo, guardare opere d’arte nei musei, sentire della buona musica, conversare con persone dotte, far esperienze, passano tutte in second’ordine. La formazione di una cultura è possibile soltanto attraverso molte letture, e molte letture non si possono fare se non si legge rapidamente”.
Ma, a riguardo, Prezzolini, piuttosto che insegnare tecniche di lettura veloce fa una premessa, da me già accennata, che è alla base di tutti i modi di lettura: e cioè che la velocità di lettura va adeguata agli obiettivi che ci prefiggiamo da essa. E riprende un concetto già espresso da Bacone, per cui: “ci sono i libri da assaggiare, i libri da inghiottire e i pochi da masticare e digerire”. Di fronte a letture profonde come, porta ad esempio Prezzolini, quella di Kant o Sant’Agostino “dove non si tratterrà tanto di star attenti ai particolari, quanto di lasciar quasi svolgere dentro di (noi) una certa azione penetrativa che, per arrivare in tutto il suo spirito, ci mette del tempo”. Più in particolare, è necessario tener presente che chi legge “non corre con l’occhio sulla linea di stampa, ma procede a tratti, afferrando dei pezzettini di essa, come boccate; più grande (è) la boccata, e naturalmente più rapido (è) il processo di trasformare quei simboli che son le lettere stampate in concetti mentali. (…) C’è chi afferra una linea in quattro riprese dell’occhio, e c’è chi lo fa in due riprese soltanto. (…) L’occhio del lettore rapido dev’essere capace di afferrare il senso di una frase intera. Molto spesso non occorre neanche che veda: basta che riconosca il principio delle parole e che indovini il resto”. 
Sostanzialmente, da un punto di vista fisico e mentale, tutte le tecniche di lettura veloce consistono più o meno in esercizi mirati ad allargare lo sguardo, ad afferrare, senza diminuire il grado di comprensione, più righe di un testo. Continua Prezzolini: “A poco alla volta questa capacità di ‘indovinare’ porta il lettore sperimentato a scorrere rapidamente tutta una pagina e da poche parole essenziali che l’occhio vi scorre, indovinarne il senso. Questa è la vera lettura, che non è meno efficace dell’altra, salvo casi speciali”. E’ chiaro, a questo riguardo, che per: “Un filologo potrà leggere tutto un classico soltanto in cerca di una data parola, o di una data espressione, o di un dato tipo di parole”, ma questi sono casi che non rientrano nel nostro discorso.  Né,  però, se l’esigenza è quella di leggere più libri possibili, o, comunque, entrare in contatto con loro per stabilire, una volta aperti, il rapporto con loro, è sufficiente la lettura “a boccate”, più o meno ampie che siano. Una buona mano, ad esempio, la dà anche quella che Prezzolini chiama “lettura d’assaggio”, quella cioè che si fa “scartabellando un libro, guardando al modo come l’autore fa delle citazioni, o mette delle note, o cogliendo il ritmo di un verso o di una frase qui e là. Un conoscitore molto spesso non ha bisogno di ber tutta la botte per saper che il vino val poco, gli basta un bicchiere e nemmeno lo tira giù, se ne sciaguatta la bocca. Non c’è nulla di più ridicolo del lamento di certi autori che un critico loro non li ha letti interamente; alle volte ci saranno delle ingiustizie, ma chi ha fatto esperienza di letture sa che una pagina spesso basta a veder se val la pena di andare avanti”. E questo è un tipo di lettura da non sottovalutare, perché, intanto, certamente contribuisce,  con la verifica del caso, a eliminare  certe aspettative nei confronti di libri non meritevoli dei rimorsi che il non leggerli avrebbero suscitato, e poi, al contrario, ci consente di veder pienamente soddisfatte, subito, quelle stesse aspettative, ripromettendoci una lettura più attenta e generosa.
Personalmente, questo tipo particolare di lettura, io l’ho molto utilizzata negli anni in cui facevo il “lettore” delle case editrici. Un’esperienza che è stata una scuola di lettura veloce, più ancora di quella necessaria a leggere libri col fine di recensirli. Bastava leggere la prima cinquantina di pagine e, quindi, se il testo non andava, com’era per la maggior parte dei dattiloscritti, continuare la lettura “a cucchiaino”, cioè assaggiando il testo qua e là, per farmi un’idea più o meno precisa del libro, di solito un romanzo: struttura, trama, personaggi, stile, messaggio. D’altra parte non era possibile fare altrimenti, né sarebbe stato giustificato dalla qualità dei testi. E questo, ovviamente, al di là del fatto che quello del ‘lettore’ di case editrici è un lavoro ingrato, pagato poco, e di nessunissimo potere decisionale (almeno al mio livello gerarchicamente basso, non certo paragonabile, ad esempio, a quello di un Bobi Bazlen o, più recentemente, di un Giuseppe Pontiggia, i cui giudizi pesavano quasi quanto e più di quello di un direttore editoriale), perché comunque era una gioia, anche a queste condizioni, trovare un libro buono.
Per me è stata una grande esperienza, più di quella che m’ero già formato come recensore di libri.  D’allora, affronto ciascun libro alla solita maniera: comincio a leggerlo, vado avanti per una cinquantina di pagine, se noto che il libro mi piace, mi attrae, se tira insomma, continuo, altrimenti, se comincia ad annoiarmi, a interessarmi sempre meno, prendo a saltare le pagine. A un certo momento decido se vale la pena di continuare o no. In quest’ultimo caso, lo ripongo sullo scaffale. Non me l’ha ordinato nessun medico che devo leggere un testo o un autore che mi fa solo perdere tempo. Perché è certo: letture che non avvincono o, comunque, che avverti come un peso, sono inutili. La lettura viene meno alla sua funzione.
Eppure, lo so, non è facile abbandonare un libro. Qualcosa spinge sempre a trattenerlo ancora in mano, anche se non va, come se si stesse per perdere un’occasione, un’opportunità che non tornerà mai più. Capita soprattutto di fronte ad autori conclamatamente grandi (in questo senso, ad esempio, mi è capitato di riprendere più volte in mano “Il diavolo e Margherita” di Michail Bulgakov, considerato unanimemente un capolavoro, senza mai essere riuscito a concluderne la lettura), meno con gli sconosciuti, ai quali chissà per quali vie sono pervenuto.
Sul lasciar perdere o continuare a leggere un libro che non va, ci sono idee contrapposte. Ad esempio, sia Pontiggia che Pennac, appellandosi al diritto del lettore, suggeriscono di abbandonare il libro che non piace per passare ad altri. La scrittrice Camilla Baresani, invece, nel suo libro “Il piacere tra le righe – Le seduzioni della lettura”[2], sostiene la necessità di portare comunque a termine la lettura di un testo iniziato. Scrive: “Non ha molto senso appellarsi ai presunti diritti del lettore, tra cui quello di lasciare un libro che nelle prime pagine ci annoia – quando invece, proprio come in qualsiasi pratica che conduce al piacere, per esempio nell’erotismo, spesso vale la pena di insistere”. Personalmente, però, sono del parere che ci dev’essere il partner giusto, altrimenti l’erotismo viene meno, in quanto esso si accende e consuma nel rapporto con l’altro. Ma, tornando alla Baresani: “Nella lettura non tutto deve necessariamente funzionare subito: ci sono problemi di comunicazione tra mondi diversi, come possono esserci tra due persone che pure provano reciproca attrazione. (…) Sono molti i libri che ho iniziato a leggere sforzandomi, annoiandomi, spinta solo dalla fiducia nei consigli di qualche altro lettore, per poi riuscire a trovare sintonia più avanti, una sintonia tanto profonda da farmi ripercorrere e quindi rivalutare anche le pagine iniziali. Non ci sono romanzi che ‘partono’ in ritardo. Distratti, affaticati, deconcentrati, leggiamo senza leggere, con la testa altrove, come capita con certe chiacchiere che facciamo meccanicamente, e di cui non ricordiamo più nulla…
Sì, può accadere che quel determinato giorno sei distratto, deconcentrato, ma non così spesso, non il lettore appassionato. Non si va avanti semplicemente perché non c’è feeling con il libro, con l’autore, l’argomento, lo stile. E, allora, appunto, meglio lasciar perdere, prendere un altro libro… Certo, questo non esclude, per motivi diversi, che un giorno si riprenda un libro abbandonato per scoprire qualità che alla prima lettura erano sfuggite. Ciò potrebbe confortare la tesi di Camilla Baresani, ma in realtà parliamo di un evento raro, non della regola.
Un libro, dunque, funziona se è in grado di dirci qualcosa, con il quale confrontarci. In questo caso, perché il rapporto sia più stretto, può anche essere utile quel lavoro che Prezzolini chiama di “scrematura”, quella lettura con il lapis o un evidenziatore in mano “per segnare i passi che piacciono o urtano, le parti più importanti; le idee centrali; delle espressioni felici; delle citazioni rare”.
E ciò va fatto, a mio avviso, anche nella prospettiva di una rilettura più efficace, perché in genere, come annota Jean Guitton nel suo interessante libro “Il lavoro intellettuale”[3] c’è da rassegnarsi al fatto che, anche un libro graditissimo: “…contenga parti deboli, prolissità, ripetizioni o al contrario omissioni, lacune e molti altri difetti”. Tant’è che alla fine lo scrittore suggerisce di concentrarci su pochi libri, “quelli capaci in ogni circostanza di darci un consiglio o un impulso”, per quindi ammonire, citando Marco Aurelio: “Non lasciarti prendere dalla sete dei libri. Tolti dalla vita umana i lavori, gli incidenti, le cure del corpo e del mondo, gli spostamenti, gli avvenimenti casuali, resta poco tempo per la lettura”, così suggerendo di avere pochi libri preferiti sui quali concentrarsi. Il che sarebbe la soluzione del problema, ma è praticamente impossibile, credo lo fosse anche per Guitton stesso. Com’è possibile ridurre la propria smania di leggere a pochi autori e testi quando ogni giorno arrivano libri che non chiedono altro che di essere letti?
La gente comune non sa quanto tempo e quanta fatica costi imparare a leggere. Io vi ho impiegato ottanta anni e ancora oggi non posso dire d’aver raggiunto lo scopo” aveva detto Goethe al suo biografo Eckermann.
E’ così, purtroppo: si spera sempre di imparare a leggere sempre meglio, e sempre di più. In questo senso, fatte salve “le condizioni indispensabili all’acquisizione di una necessaria abilità (che) sono essenzialmente una buona funzione oculare e molta buona volontà”, non esistono vere e proprie tecniche, bensì una sola, di base, che è appunto quella che Tonfoni e Tassi chiamano, come il titolo del loro libro, la lettura strategica. Ovvero, saper decidere  volta per volta che cosa fare davanti a un testo in rapporto ai propri obiettivi” e quindi di “voler leggere in un certo modo invece che in un altro per rendere più funzionale il suo rapporto con la parola scritta e trarne le informazioni o le nozioni necessarie”. E’ un problema di decision making. “La selezione dell’oggetto di lettura” scrivono Tonfoni e Tassi “è un elemento cruciale di questo processo nell’ambito di una complessità sempre crescente, che noi dobbiamo ridurre, senza ipersemplificare. La complessità va gestita, senza rischiare di perdere elementi più importanti per noi e in relazione ai nostri obiettivi”.
Non posso leggere tutti i libri che mi arrivano, che acquisto o che ho nella biblioteca, ma devo di volta in volta decidere quali leggere compatibilmente con i miei bisogni lavorativi da una parte e quelli del sapere o dello svago. “Quindi è molto importante saper alternare momenti di totale direzionamento e razionalità nella gestione di una marea di testi da leggere, selezionandoli accuratamente, a momenti nei quali applicare un atteggiamento più libero, svincolato dalla necessità e dalla funzionalità tipiche della specializzazione (…) E’ molto importante saper leggere su questo doppio binario, anche per motivarci meglio alla lettura e saper gestire in momenti diversi modi diversi per reperire il testo”. In conclusione: “Non esistono ricette per risolvere i problemi in assoluto, ma piuttosto metodi per affrontare i problemi nel modo più appropriato, a seconda delle circostanze specifiche e dei tipi di testo. In altre parole, esiste una sequenza del tipo: scelta del testo, valutazione dell’obiettivo, individuazione del modo e del tempo di lettura”. Diventa pertanto fondamentale, ogni volta che entra un libro in casa, prima di decidere se leggerlo o riporlo nello scaffale seguire una sorta di procedura: scorrere il risvolto di copertina che illustra il contenuto del libro, considerare l’argomento che tratta o la trama di massima, se si tratta di un romanzo, quindi la bio-bibliografia dell’autore e altri dettagli che possono essere il nome del traduttore, se il libro è straniero, il sommario o indice, e magari dare una scorsa alla prima pagina, tanto per assaggiarne lo stile e così via. Una sorta di veloce radiografia che consenta di inquadrarlo per poi deciderne il destino. Una pratica che alla fine, se il libro non attrae subito, può anche equivalere a una lettura definitiva.



[1] Garzanti, quarta edizione, Milano, 1966

[2] Bompiani, 2003
[3] Edizioni Paolini, 1987

martedì 22 maggio 2012

IL GIALLO DELLA SPAGNOLA SUSANA FORTES ...

LADRO DI LIBRI: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 20-4-2012

Intervista ...
: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 20-4-2012 Intervista alla spagnola Susana Fortes IL MEDIOEVO MAGICO SANGUINOSO Morti misteriose e libri rubati...
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 20-4-2012

Intervista alla spagnola Susana FortesIL MEDIOEVO MAGICO SANGUINOSOMorti misteriose e libri rubati in “Il cammino del penitente”. Santiago di Compostela lo scenario.

di Diego Zandel

Tutto comincia con l’assassinio di una ragazza nella cattedrale di Santiago de Compostela. A indagare sul delitto  è il giovane commissario Lois Castro, uno che, come poliziotto, viene dalla strada. La vittima si chiama Patricia Palmer: alla polizia è nota solo per aver partecipato a una dimostrazione contro una fabbrica locale accusata di inquinamento. Però, in breve emergono altri particolari, il principale del quale ha a che fare con un manoscritto del quarto secolo, il Liber apologeticus, rubato dall’archivio della diocesi alla biblioteca dell’università. E a questo furto s’interessa per motivi culturali una studentessa, Laura Màrquez, la quale aiutata da un giornalista, Villamil, incrocerà,  tra momenti misteriosi e gravidi di pericolo, la pista del poliziotto.  La trama è quella del romanzo,  edito dalla Nord, “Il cammino del penitente” della spagnola Susana Fortes, già nota in Italia per il successo del suo libro precedente “Quattrocento”,  incontrata a Torino in occasione del Salone del Libro.
Signora Fortes, non ritiene che in questi ultimi anni, da Umberto Eco e Dan Brown  in poi, troppi romanzi raccontano storie che trovano il loro prologo in testi antichi, segreti o misteriosi?E’ vero, c’è un’inflazione di romanzi basati sul manoscritto ritrovato. E questo mio libro nello specifico è simile a “Quattrocento”. In questo caso però parlo di un autore, il vescovo Priscilliano, che è il primo martire della Chiesa in Galizia,  reso tale dalla Chiesa stessa per il suo andare controcorrente. Il suo cristianesimo si nutriva di diversi motivi rivoluzionari, come ad esempio la partecipazione delle donne alla liturgia ed altre innovazioni per cui è ricordato in Galizia. Altro motivo di interesse intorno a questo vescovo è che esistono ipotesi secondo le quali le sue spoglie vennero traslate a Santiago de Compostela, sepolte in segreto, col dubbio oggi che ad essere venerate nella cattedrale siano le sue e non quelle di san Giacomo. Sono questi i motivi che mi hanno spinto a scriverlo, non la moda.
Laura Màrquez, il suo personaggio, dice che il primo uomo di cui si è innamorata è stato Guglielmo de Baskerville de “Il nome della rosa”. Anche lei?Diciamo di si. E mi sembra di ricordare che anche in “Quattrocento” ci fosse una strizzatina d’occhio a Eco. Noi autori molto spesso, pur non  essendo troppo autobiografici vampirizziamo quelli che sono i nostri gusti  per metterli nei nostri libri.
Ascoltando lei ed altri autori, ad esempio il serbo Živković, sembra che Eco abbia avuto più influenza all’estero che in Italia. In effetti tutto il romanzo storico attuale è tributario de “Il nome della rosa”. Anche se penso che Eco abbia sempre più difficoltà di rapporto con la propria opera perché oscura tutte le altre, quasi fosse l’unica che ha scritto.
L’idea, che può essere giudicata blasfema, di un omicidio nella cattedrale di Santiago de Compostela come l’ha avuta?Dovrei dire che i delitti che avvengono in luoghi sacri sono tipici più del medioevo. Però con Santiago non si sa mai, perché è un luogo magico, immerso in un’atmosfera particolare condizionata da condizioni climatiche che contribuiscono a circondarla di mistero: la pioggia frequentissima, la nebbia, il grigio diffuso, le stradine, il muschio persistente in ogni angolo, hanno un peso letterario molto forte. Io ho studiato a Santiago e volevo tornarci.  Ci ho pure lasciato il segno in qualche modo: quindici giorni dopo la presentazione de “Il cammino del penitente”a Santiago c’è stato un furto alla cattedrale avvenuto con la stessa modalità che io racconto nel libro. Parliamo di un furto di un volume che si trovava in una camera blindata della quale solo tre persone avevano la chiave. Il giorno dopo tutti i giornali hanno dato la notizia dicendo che i ladri avevano plagiato il mio libro.
Opera delle sette religiose all’interno della chiesa di cui parla nel romanzo?Pur essendo antichissima, Santiago è una città giovane, per via dei tanti studenti che frequentano la sua università. Posso solo dire che è interessante ritrarla in questa epoca di capitalismo crepuscolare, di incertezze, di si salvi chi può, e le cui vie di salvezza possono essere diverse per ciascuno. In questo senso credo che il giallo sia la forma migliore per descrivere questo mondo.
       
Diego ZandelSusana Fortes, Il cammino del penitente, Editrice Nord, pag. 286, €.16,50 

domenica 20 maggio 2012

"ESSERE BOB LANG", NE PARLA IN ANTEPRIMA IL QUOTIDIANO DELLA MINORANZA ITALIANA IN ISTRIA E A FIUME

Lo scrittore di origini fiumano-istriane
torna nelle librerie con «Essere Bob Lang» (Hacca, 2012)

Diego Zandel, un nuovo avvincente giallo

FIUME – Lo scrittore di origini fiumano-istriane, Diego Zandel, a giorni sarà nuovamente in tutte le librerie italiane – ha debuttato in anteprima al Salone del Libro di Torino (9 – 14 maggio) – con un nuovo romanzo, “Essere Bob Lang”, pubblicato dalla casa editrice Hacca (Matelica, in povincia di Macerata). È un gustoso e avvincente giallo, ma anche un prezioso manuale di scrittura creativa e tecnica narrativa, come si apprende dalle note di presentazione dell’editore. Per Zandel è una specie di doppio ritorno di genere e tematico, nonché d’ambientazione: infatti, nella sua produzione letteraria finora si sono alternati thriller o spy story e opere memorialistiche, quest’ultime legate alla terra delle sue origini; mentre come luoghi dell’azione ha spesso scelto la Grecia e il mondo dell’Egeo, rispettivamente Fiume e l’Istria. Al centro del racconto del suo nuovo romanzo c’è la storia di Marco Molina, impiegato di banca che sogna di diventare scrittore seguendo le orme di Ernest Hemingway e Dashiell Hammet, e impersonificandosi nelle gesta del suo alter ego letterario Bob.
“Essere Bob Lang” racconta così della doppia vicenda, umana e letteraria, di un uomo posto di fronte alle molteplici sfide della vita e della narrativa. All’inizio ci troviamo dentro un perfetto meccanismo thriller e lo scenario di Cipro, dove servizi segreti, mafia russa e avventurieri assortiti sono a caccia di una preziosa icona greca, combattono una guerra senza quartiere, e dove non manca, come vuole questo genere narrativo, una donna splendida e sensuale. Una donna di sicuro molto diversa da Susy, moglie con cui Marco ha un bambino (Ernesto, come Hemingway). Scontento del trantran familiare, nello scenario della Roma di oggi, gran sognatore, Marco arriva a trasformare ogni persona e ogni episodio della sua normalità in un particolare del romanzo che sta scrivendo, con la giusta stilizzazione ed “esagerazione”, quello con Bob Lang e il suo amico Vasco Carena, anziano scrittore di successo.
“In questa maniera, Diego Zandel ci racconta due romanzi appassionanti: la vita dell’insoddisfatto bancario Marco e l’avventura dell’eroico Bob. Come Giuseppe Pontiggia che incontra Ken Follett. La grande impresa (perfettamente riuscita) di Zandel consiste nel trascinare il lettore in un crescendo mozzafiato dentro le due finzioni che si fondono e si confondono, fino a diventare un’unica realtà (narrativa) nella grandiosa scena d’azione del finale all’aeroporto di Fiumicino. Più un ultimissimo colpo di scena”, come rileva nella recensione lo scrittore Giuseppe Pederiali.
Di genitori fiumani, Diego Zandel nasce nel 1948 nel campo profughi di Servigliano, che raccoglie gli esuli italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia in fuga dalla Jugoslavia di Tito, per poi essere cresciuto nel Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Ha lavorato nel settore delle attività di comunicazione e, più specificatamente, editoriali di Telecom Italia, assumendone la responsabilità e la dirigenza. Proprio per il suo lavoro nel campo della comunicazione tout court, un paio di volte i servizi segreti di alcuni Paesi dell’Est europeo hanno tentato, inutilmente, di farlo diventare un loro agente, come egli stesso scrive nella sua biografia. È autore dei romanzi: “Massacro per un presidente” (Mondadori, 1981), “Una storia istriana” (Rusconi, 1987), “Crociera di sangue” (Mondadori, 1993), “Operazione Venere” (Mondadori, 1996), “I confini dell’odio” (Aragno, 2002) e “L’uomo di Kos” (Hobby & Work 2004). Nel 2006 è uscito “Verso Est – racconti di oltre il confine orientale e dell’Egeo” (Campanotto editore), che raccoglie racconti pubblicati negli anni su vari giornali e riviste, “Il fratello greco” (Hacca,2010) e “I testimoni muti”, edito da Mursia lo scorso 2011. Molti lavori sono usciti anche in alcune antologie. È autore, con Giacomo Scotti, del saggio “Invito alla lettura di Andrić” (Mursia, 1981), e di due libri di poesie, “Primi giorni” (O.E.L. 1965) e “Ore ferme” (SAL Trieste, 1968). Collabora con articoli, recensioni, interviste a vari giornali, nonché con diverse case editrici italiane. (ir)

venerdì 18 maggio 2012

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 18-5-2012

LASCIAMOCI COSI’ SENZA RANCORE
ANZI, SEMPRE CON TANTA IRONIA
“Le nostre separazioni”, il romanzo del francese David Foenkinos

di Diego Zandel

Potrebbe apparire una melensa storia d’amore, ma “Le nostre separazioni” del francese David Foenkinos, edito da e/o, non lo è. La riscatta un’ironia, quasi una comicità, di fondo che rende estremamente piacevole la sua lettura.
Fritz, chiamato così perché il padre, pur francese, aveva una passione per il romanzo “Il cavaliere, la morte e il diavolo” di Fritz Zorn, conosce Alice, insegnante di tedesco, a una festa, anche qui in circostanze comiche (s’erano salvati da una intossicazione di salmone avariato, in quanto  a nessuno dei due piaceva il salmone). Lui è un provinciale, figlio di ex hippies, lei figlia di una famiglia borghese e conservatrice. Vanno a convivere abbastanza presto, ma lui, all’inizio, è senza arte né parte, e Alice si vergogna, per questo, di farlo conoscere ai genitori. Pertanto, quando arriva l’estate lei si trova ad andare senza di lui in vacanza, alla villa che la famiglia ha in Bretagna. Fritz, in sua assenza, tra i morsi di gelosia, capisce che deve trovare un impiego. Risponde così a una offerta di lavoro presso l’enciclopedia Larousse.
Qui si ambienta presto molto bene. Il capo del personale è una bella donna, Cèline Delamare,  con una decina di anni in più sulle spalle che lo prende in simpatia, al punto da andarci a letto. Sarà quando il rapporto tra Fritz e Alice, sempre caratterizzato da simpatici diverbi che li conduceva a continue rotture (Le nostre separazioni, appunto) conoscerà un momento di distacco.
Il rapporto tra Fritz e Cèline andrà avanti anche quando  lui tornerà a convivere con Alice, la quale, ora, grazie al lavoro che svolge, può anche presentarlo ai genitori e alla sorella. L’incontro in famiglia, che vedrà Fritz sopportare fino a un certo punto le dichiarazioni reazionarie e razziste del padre di lei, è uno dei momenti più divertenti di tutto il libro.  Le conseguenze saranno motivo di una nuova separazione tra i due, mentre Fritz continuerà a sollazzarsi tra le braccia della sua capo del personale.
Il rapporto tra i due dipendenti della Larousse sembra essere esclusivamente sessuale. In realtà, quando Fritz riallaccerà il rapporto con Alice, decidendo entrambi finalmente di sposarsi, si vedrà che Cèline non accetterà di fare a meno di lui, com’è nelle sue intenzioni. Alla vigilia del matrimonio, però, Cèline lo costringe a un ultima notte d’amore con lei: un addio al celibato che gli costerà moltissimo. Di fronte all’idea di non godere più dei  giovanili ardori di Fritz, Cèline, il giorno stesso del matrimonio si presenta ad Alice mettendola al corrente della sua tresca con il futuro marito. Ad Alice, dolorosamente delusa, non resterà che fuggire in abito da sposa dalle braccia di lui, e chiudere  per sempre  ogni rapporto.
Fritz, depresso, se ne andrà per un po’ di mesi, salvo poi essere riassunto, dalla Larousse, mentre Cèline, disprezzata per il suo gesto, verrà addirittura licenziata. Nel periodo di vacanza dal lavoro, Fritz conoscerà una giovane scrittrice che alla fine sposerà e con la quale metterà al mondo un figlio.  Passeranno dieci anni, durante i quali egli non saprà nulla di Alice. Finché un giorno lei, a sua volta sposata e madre di una bambina, si rifarà viva per piangere sulla spalla di Fritz la morte della amata sorella (alla quale l’ex promesso sposo era molto simpatico). I due torneranno insieme ancora una volta,  raccontandosi cosa hanno fatto in quei dieci anni e scoprendo di essere stati entrambi negli stessi posti in periodi più o meno coincidenti, senza però mai incontrarsi. Anche quello lo interpretano come  il segno del destino di due anime gemelle. Che però, questa volta, senza più la vis comica delle pagine precedenti,  non avrà alcun futuro per chiudersi nella malinconia di un addio definitivo.
                                                                      
Diego Zandel

David Foenkinos,  Le nostre separazioni, Edizioni e/o, pag. 159, €. 17,00    

giovedì 17 maggio 2012

LADRO DI LIBRI: IL RITORNO DI IRENE BRIN. DUE LIBRI.

LADRO DI LIBRI: IL RITORNO DI IRENE BRIN. DUE LIBRI.: LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 15-5-2012 IL RITORNO. NUOVA ATTENZIONE SULLA SCRITTRICE E GIORNALISTA MILLE MARIU’ PER IRENE BRIN Un ...

LADRO DI LIBRI: ILMA RAKUSATalvolta si scoprono dei libri per cas...

LADRO DI LIBRI: ILMA RAKUSA
Talvolta si scoprono dei libri per cas...
: ILMA RAKUSA Talvolta si scoprono dei libri per caso. Non ricordo dove avevo letto di Ilma Rakusa e del suo libro “Il mare che bagna i pensi...
ILMA RAKUSA
Talvolta si scoprono dei libri per caso. Non ricordo dove avevo letto di Ilma Rakusa e del suo libro “Il mare che bagna i pensieri”, edito da Sellerio, alcune cose che mi interessavano. Si parlava di Trieste, dell’Europa centrale, la vita di una donna attraverso i confini  di quella parte del mondo così legata alle mie radici. Giorni dopo, da Melbookstore, dimentico del nome dell’autrice e del titolo, ricordando solo l’editore, Sellerio, mi metto a cercare. Vado a intuito e, presto, m’imbatto in una copia, di dorso, tra i libri blu della Sellerio, che richiama la mia attenzione. Ilma Rakusa, forse è lei… Prendo e do scorsa alla bandella: “libro di ricordi… dietro c’è lo spazio geografico tra Trieste e Cracovia…  un vagabondare dalla Slovacchia fino a Zurigo, passando per Budapest, Lubiana, Trieste… un  trovarsi a seguire le onde dei destini collettivi, le complesse questioni identitarie, i cambiamenti politici e a volte di confini”.   Un’occhiata alla biografia: “Nata in Slovacchia nel 1946 da padre sloveno e madre ungherese…”. Non ho più dubbi: è lei la scrittrice che cerco. Prendo, pago e porto a casa.
La lettura è di quelle serali, quasi notturne, dopo i programmi Tv di prima serata (il pomeriggio è riservato alle letture di lavoro, cioè ai libri da recensire, per i quali l’abbandono è minore).  E Ilma Rakusa mi parla. Siamo quasi coetanei. Mi racconta la sua vita, il primo capitolo dedicato al padre, anni Trenta, l’università a Lubiana poi l’insegnamento a Zagabria, al Politecnico, assistente di Vladimir Prelog “il futuro premio Nobel”. Dopo la guerra Budapest, quindi Trieste con il suo golfo, la casa a Barcola, odori e colori che resteranno per sempre a Ilma nel cuore. E’ la Trieste ancora occupata dagli angloamericani, zona A e zona B, ogni tanto un viaggio a Lubiana, a casa dell’amato nonno Dedek. Fino al 1951 quando da Trieste si trasferiranno definitivamente a Zurigo, e il tedesco diventerà la lingua d’elezione di Ilma, senza però dimenticare le altre: sarà traduttrice dal russo (una borsa di studio la porterà per un anno a Pietroburgo a perfezionarsi nella lingua), dal serbocroato (sarà lei a tradurre Danilo Kiš), dall’ungherese. Una vita di viaggi, di lunghi soggiorni, Parigi, Vilnius, Cracovia, il treno come mezzo di trasporto. Le stazioni, così come le descrive lei, le stazioni dell’est europeo, allora comunista, ti restano nella memoria. “Stazioni color giallo mariateresiano, grigio sporco, divorate dalla rogna, cadenti, con e senza colonne, con un buffet maleodorante o con un semplice banco di mescita, con piante di geranio rinsecchite ed una piccola casa cantoniera, con i binari morti in mezzo alla tristezza della provincia”. Ritratti, stati d’animo, paesaggi, colori, odori, soprattutto odori, atmosfere. Sul filo della memoria di Ilma si attraversano spazio e tempo, e sempre, anche, in compagnia anche delle sue letture. Cattolica, è appassionata di testi ebraici. Nella sua valigia Nachman, Shlomo, Mendel, e, nelle sue passeggiate, sempre una visita è dedicata alle sinagoghe. Nel suo cuore e nella mente il dolore per lo sterminio degli ebrei in quella parte d’Europa da lei tanto amata “della cui tradizione culturale avevano pur costituito l’insostituibile cemento unificatore” come scrive nella postfazione Mario Rubino, presentando meglio l’autrice.  Che a me, una volta letto il suo libro, pare di conoscere da sempre. Anche per me, come per lei “l’est era il bagaglio che ci portavamo appresso. Con l’origine e l’infanzia e gli odori e le grandi prugne. Col carbon fossile e le paure e le locomotive a vapore e il seguito di fughe. Noi venivamo da LA’ e quei legami non li recidemmo mai”.
do scorsa alla bandella: “libro di ricordi… dietro c’è lo spazio geografico tra Trieste e Cracovia…  un vagabondare dalla Slovacchia fino a Zurigo, passando per Budapest, Lubiana, Trieste… un  trovarsi a seguire le onde dei destini collettivi, le complesse questioni identitarie, i cambiamenti politici e a volte di confini”.   Un’occhiata alla biografia: “Nata in Slovacchia nel 1946 da padre sloveno e madre ungherese…”. Non ho più dubbi: è lei la scrittrice che cerco. Prendo, pago e porto a casa.
La lettura è di quelle serali, quasi notturne, dopo i programmi Tv di prima serata (il pomeriggio è riservato alle letture di lavoro, cioè ai libri da recensire, per i quali l’abbandono è minore).  E Ilma Rakusa mi parla. Siamo quasi coetanei. Mi racconta la sua vita, il primo capitolo dedicato al padre, anni Trenta, l’università a Lubiana poi l’insegnamento a Zagabria, al Politecnico, assistente di Vladimir Prelog “il futuro premio Nobel”. Dopo la guerra Budapest, quindi Trieste con il suo golfo, la casa a Barcola, odori e colori che resteranno per sempre a Ilma nel cuore. E’ la Trieste ancora occupata dagli angloamericani, zona A e zona B, ogni tanto un viaggio a Lubiana, a casa dell’amato nonno Dedek. Fino al 1951 quando da Trieste si trasferiranno definitivamente a Zurigo, e il tedesco diventerà la lingua d’elezione di Ilma, senza però dimenticare le altre: sarà traduttrice dal russo (una borsa di studio la porterà per un anno a Pietroburgo a perfezionarsi nella lingua), dal serbocroato (sarà lei a tradurre Danilo Kiš), dall’ungherese. Una vita di viaggi, di lunghi soggiorni, Parigi, Vilnius, Cracovia, il treno come mezzo di trasporto. Le stazioni, così come le descrive lei, le stazioni dell’est europeo, allora comunista, ti restano nella memoria. “Stazioni color giallo mariateresiano, grigio sporco, divorate dalla rogna, cadenti, con e senza colonne, con un buffet maleodorante o con un semplice banco di mescita, con piante di geranio rinsecchite ed una piccola casa cantoniera, con i binari morti in mezzo alla tristezza della provincia”. Ritratti, stati d’animo, paesaggi, colori, odori, soprattutto odori, atmosfere. Sul filo della memoria di Ilma si attraversano spazio e tempo, e sempre, anche, in compagnia anche delle sue letture. Cattolica, è appassionata di testi ebraici. Nella sua valigia Nachman, Shlomo, Mendel, e, nelle sue passeggiate, sempre una visita è dedicata alle sinagoghe. Nel suo cuore e nella mente il dolore per lo sterminio degli ebrei in quella parte d’Europa da lei tanto amata “della cui tradizione culturale avevano pur costituito l’insostituibile cemento unificatore” come scrive nella postfazione Mario Rubino, presentando meglio l’autrice.  Che a me, una volta letto il suo libro, pare di conoscere da sempre. Anche per me, come per lei “l’est era il bagaglio che ci portavamo appresso. Con l’origine e l’infanzia e gli odori e le grandi prugne. Col carbon fossile e le paure e le locomotive a vapore e il seguito di fughe. Noi venivamo da LA’ e quei legami non li recidemmo mai”.

mercoledì 16 maggio 2012

IL RITORNO DI IRENE BRIN. DUE LIBRI.

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO 15-5-2012

IL RITORNO. NUOVA ATTENZIONE SULLA SCRITTRICE E GIORNALISTA

MILLE MARIU’ PER IRENE BRIN
Un suo libro e una biografia

di  Diego Zandel

Due libri riportano alla luce la figura di Irene Brin, famosa giornalista e scrittrice degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale che si caratterizzò per diversi motivi che la resero in qualche modo unica. Il primo è un libro della Brin stessa “Olga a Belgrado”, edito da Elliot, nel quale l’autrice racconta la sua esperienza nei Balcani, nel corso dell’occupazione italiana della Jugoslavia, al seguito del marito, ufficiale dell’esercito, Gaspero del Corso (ma anche come corrispondente del giornale “Mediterraneo”); il secondo è una biografia di Irene Brin scritta da Claudia Fusani, dal titolo “Mille Mariù”, edita da Castelvecchi, con prefazione di Concita De Gregorio che della Brin è sempre stata una fedele lettrice.
“Olga a Belgrado” è, in pratica, una sorta di diario senza date, nella forma chiusa del racconto, di vari episodi che hanno visto la scrittrice testimone di quel mondo così diverso da quello al quale era abituata. Il più significativo è quello che da il titolo al volume e che comincia con l’arrivo in treno di Irene Brin a Belgrado.  Completamente sola, la città in mano ai tedeschi, gli alberghi sono pieni, un signore cerca di convincerla ad andare da lui (“Cara bambina, in simili momenti, nevvero?, non ci sono più uomini, né donne! Solo creature umane e, cara piccola, vi potete fidare di me!”), ma Irene se ne guarda bene. Chiede consiglio al conduttore del treno, il quale le mette a disposizione uno scompartimento, almeno per quella notte. Irena accetta. Va a mangiare, ma ben presto ci rinuncia (“Io mi servii di prosciutto e di fegato d’oca, un cameriere mi portò il pane e la birra. Purtroppo trovai due mosche rivoltate nel prosciutto, e tre compresse nel fegato”). Il giorno dopo trova la sistemazione a casa di una certa Olga, che s’arrangia affittando stanze e bagno con acqua calda, ma anche facendo l’ostetrica in modo che si capisce essere quello della mammana. E Irene se ne rende ben presto conto, quando sente, oltre la porta, una ragazza  gridare.  Ma prima ancora della verità immediata, funziona nel racconto la grande capacità evocativa della scrittrice per il ritratto  che fa di Olga attraverso le cose e persone che ha intorno: la stanza da bagno bianca e scrostata, i vetri opachi; la servetta “ciabattona e spettinata, odorante di acquaio e di letto”; e Olga stessa, con i racconti delle sue storie d’amore ambigue. Su questa falsariga si muovono tutti gli altri racconti, carichi di un’atmosfera di guerra vissuta nelle retrovie, tra miserie, viltà, piccole gioie e piccoli eroismi. Questi racconti furono poi in parte censurati: si leggeva, forse, una sorta di tolleranza nei confronti di qualche azione partigiana, anche se non mancano crude denunce: in questo senso un racconto come “Ombre di Maria”, storia di una donna benestante morta ammazzata, due mesi prima rapata dai partigiani, e quindi il suo funerale tra bicchieri che venivano sempre riempiti, mentre “fuori la mitragliatrice riprendeva, a intervalli regolari” è emblematico. Va detto ancora che un altro libro “1952  - L’Italia che esplode”, rimasto inedito e nel quale fa, camaleonticamente, professione di antifascismo, racconta molto altro di sé.
Intanto, però l’occasione di conoscerla meglio viene da Claudia Fusiani con la sua appassionata biografia, intitolata “Mille Mariù” (che era il diminutivo del suo vero nome Maria Vittoria). Si tratta di un ritratto a tutto tondo della personalità della donna e della scrittrice, che si è caratterizzata innanzitutto per lo stile con cui  ha attraversato la Storia, dandoci di questa i risvolti quotidiani e rendendoli vivi con una scrittura dettagliata, ironica, leggera e caustica allo stesso tempo, capace di scavare nelle cronache mondane del  suo tempo cogliendo gli aspetti più subliminali, minimi, della realtà. Così brava da essere chiamata a scrivere da tutti i giornali più importanti dell’epoca, il che – dopo il rifiuto di usare il suo vero nome e cognome,i Maria Vittoria Rossi, per non compromettere il decoro della famiglia militarboghese alla quale apparteneva  - spiega l’uso di diversi pseudonimi, dal primo, Marlene, a Giorgiana, Marella, Maria Del Corso, Contessa Clara, Mariù Rossi e così via fino a quello più stabile, anche se non definitivo, di Irene Brin: nom de plume trovatole da Leo Longanesi che la volle con sé al settimanale “Omnibus”, con il quale ebbe inizio la sua prestigiosa carriera.  

                                                                                  Diego Zandel

Irene Brin, Olga a Belgrado, Elliot, pag. 186, €. 16,50
Claudia Fusani, Mille Mariù – Vita di Irene Brin, Castelvecchi, pag. 280,€. 22,00

mercoledì 9 maggio 2012

LADRO DI LIBRI: 2 – IL TEMPO DELLA LETTURAOra che, dopo una vita ...

LADRO DI LIBRI: 2 – IL TEMPO DELLA LETTURA
Ora che, dopo una vita ...
: 2 – IL TEMPO DELLA LETTURA Ora che, dopo una vita nel mondo della comunicazione alle dipendenze altrui,   posso disporre liberamente de...

2 – IL TEMPO DELLA LETTURA


Ora che, dopo una vita nel mondo della comunicazione alle dipendenze altrui,  posso disporre liberamente del mio tempo, in linea di massima mi sono attestato su due momenti della giornata da dedicare alla lettura, ciascuno con obiettivi diversi: un paio d’ore nel primo pomeriggio riservate ai libri da recensire, pertanto una lettura non totalmente libera, bensì riconducibile alla mia attività pubblicistica;  e circa un’ora la sera, solitamente al termine dei programmi televisivi di prima serata, dedicata ai libri di mio gusto e voglia.  Privilegio che mi concedo anche nei weekend, quando però il tempo a disposizione, più o meno lo stesso degli altri giorni della settimana, va ai classici o ai grandi nomi della letteratura (in questo periodo, ad esempio, sono alle prese con il primo volume dei Meridiani Mondadori di Tutte le opere di Borges).  
Leggere quotidianamente i libri che più mi interessano, diviso com’è il tempo con la lettura dei libri da recensire,  è  un’opportunità conquistata solo recentemente, ma inseguita per anni, in pratica fin da quando, finita l’adolescenza, ho cominciato a collaborare ai giornali con frequenza sempre maggiore, via via che mi facevo conoscere nel mio lavoro e, contestualmente, vedevo scemare quello da dedicare ai libri di mia scelta.
Comunque, la preoccupazione di trovare il tempo per la lettura in genere c’è sempre stata, fin da ragazzo. Infatti,  per  quanto riguarda quell’età lontana,  il semplice gesto di mio padre, di regalarmi con continuità libri, non ha soltanto contribuito a rafforzare il mio amore per la lettura ma anche – nell’economia di una giornata che prevedeva la scuola, i compiti, i giochi con gli amici – a cercare di uscire dal campo dell’occasionalità con un’organizzazione del tempo in cui la lettura fosse prevista.
I miei diari di gioventù, che conservo, sono pieni di tabelle con gli orari degli impegni e programmi da assolvere, comprensivi, oltre che degli obblighi scolastici e dell’attività fisica,  che non trascuravo, della necessità di trovare il tempo per scrivere (la mia vocazione di scrittore si manifestò precocemente) e, appunto, per leggere.
Una ricerca, questa,  mai accantonata in ragione delle condizioni esterne che inevitabilmente tendevano a modificare la vita.
Il primo significativo cambiamento lo ebbi quando il 10 marzo 1971, all’età di 24 anni, venni assunto in Telecom Italia (allora chiamata SIP) e da un giorno all’altro, per cinque giorni a settimana -  dopo che, guadagnatomi il diploma magistrale nel luglio del 1969, mi ero per circa due anni trastullato nel migliore dei modi - mi ritrovai con  tante ore di meno a disposizione: 8 di lavoro e un paio circa di trasporto da casa all’ufficio e viceversa, che nel loro insieme avevano anche il potere di  svuotarti della voglia di fare altro.  Senza contare che nel tempo residuo  c’erano altri  impegni da soddisfare, uno dei quali poteva essere quello, non indifferente, di stare un po’ con la fidanzata.
Da quel momento, il tempo a disposizione principe era dato dai weekend e dalle ferie, fermo restando che la sera, bene o male, riuscivo sempre a leggere almeno i libri da recensire (all’epoca collaboravo con il quotidiano socialista Avanti!). 
Altri cambiamenti  si ebbero dopo che, nel 1972 mi sposai, nel 1977 nacque la mia prima figlia e, subito dopo,  nel 1978 la seconda, quindi nel 1981 quando nella stessa Sip fui chiamato a seguire la Stampa Aziendale, nel cui ambito avrei fatto carriera fino a diventare dirigente, e ad ogni avanzamento con responsabilità sempre maggiori che oggettivamente riducevano il tempo libero all’interno del quale – sottratti gli obblighi famigliari e mondani – potermi dedicare alla lettura (e scrittura).  Pertanto, a tal fine, l’organizzazione del tempo acquistava per me un’importanza tale da rendere assillante la ricerca di esso.  Se molto, naturalmente, si concentrava nel weekend e durante le ferie, non potevo altresì stare un’intera settimana senza leggere e scrivere. Le soluzioni a riguardo erano di volta in volta le più diverse.
Ad esempio, non sempre, ancora lavorando in azienda, mi sono trovato ad avere poco tempo a disposizione. Negli ultimi due anni lavorativi ne avevo a iosa, e proprio nel corso della stessa giornata di lavoro. Era accaduto che l’azienda, che fino allora mi aveva affidato tante responsabilità, decise di chiudere il settore editoriale che mi aveva affidato, con un budget, allora, di 12 miliardi di lire, 18 collaboratori, consulenti e fornitori da gestire. Da un giorno all’altro, non rimase più nulla. I miei collaboratori furono indirizzati in altre funzioni aziendali ed io, col mio stipendio di dirigente e l’esperienza ultratrentennale, in una stanza a non far nulla. Soccombevo all’entusiasmo per la comunicazione on-line, internet, intranet, il nuovo credo… L’editoria tradizionale, la vecchia stampa aziendale, sembrava un residuato bellico, come chi ne era il responsabile. Così, ancora relativamente giovane e carico di energia, me ne stavo chiuso nella mia stanza, per essere chiamato al massimo per svolgere lavoretti umilianti, da professional, disposti da superiori che mi potevano essere quasi figli, sicuramente al passo con i tempi per quanto riguardava la comunicazione, il marketing, la pubblicità, ma che non sapevano dove stava di casa la gestione dei collaboratori e del budget, ai quali io invece avevo dedicato religiosa attenzione. Così, in quei due anni, in una situazione non facile da sopportare – era quel mobbing di cui tanto si parla – a poco a poco, per non cadere in depressione, mi misi alla ricerca di un’àncora di salvezza e la trovai, naturalmente, nella lettura. Perché non utilizzare proficuamente quel tempo inutile a cui mi avevano condannato? Fu in questo modo che il pomeriggio diventò il tempo da dedicare ai libri da recensire, liberando la sera che, sin d’allora, diventò il momento da dedicare alle letture personali. Forse, chissà, dovrei essere grato, per questo, alla gestione aziendale che mi ha liquidato… Anche perché, di conseguenza, in questo modo si è d’incanto liberato anche il tempo che dedicavo alla lettura nei weekend, il quale, se fino a quel momento, lo avevo, appunto, riservato alle letture libere e personali, ora potevo aggiungere una nuova combinazione, grazie alla quale potevano trovare spazio una tipologia di libri che avevo preso a frequentare, con mio disappunto,  sempre più raramente: quei classici, che erano stati il pane della mia gioventù. Cominciai con i francesi, Zola, e poi Balzac e Flaubert, rilessi qualcosa di Hugo e Stendhal. E, poi, Conrad e, per la prima volta, Ippolito Nievo che mi entusiasmò, facendomi anche capire, per la sua rivoluzionaria laicità venata di anticlericalismo, perché, al contrario del cattolico Manzoni, sia così poco frequentato nelle scuole italiane.
Quegli ultimi due anni di mobbing a fine carriera, mi sono serviti, comunque, a preparare il terreno per quando sarei andato in pensione, dove avrei mantenuto sostanzialmente la divisione della lettura nei tre momenti: pomeriggio,  sera e week end. L’unica differenza rispetto all’ufficio era che a casa potevo leggere nel mio posto preferito, nel mio studio, disteso sul divano e qui, eventualmente, consentirmi anche la pausa di una breve pennichella. Per circa cinque anni ho goduto della più totale libertà in questo senso.  Quindi, un nuovo cambiamento: nel settembre del 2007 è arrivato il primo nipote, Diego, e con lui gli obblighi derivanti dal ruolo dei nonni che, come si sa, in una società carente di servizi qual è quella italiana, è fortemente gregario e d’aiuto per il tempo che i genitori lavorano. Dopo Diego altri due nipoti, per il momento, Matteo, nel 2010, e Rebecca nel 2012.
Ma, in sostanza, il fatto appunto di essere libero da vincoli di dipendenza lavorativa e che il carico maggiore nell’accudimento dei nipoti ricada, nel mio caso, sulla nonna, mi consente attualmente di scrivere tutte le mattine e leggere nei momenti prescelti.
In questo quadro, però, a fare i conti con il tempo, s’inserisce anche un aspetto psicologico di non poco conto, che nasce dal consistente numero di libri presenti nella mia biblioteca, attualmente superiore agli 8000 volumi (sarebbero stati di più, ma tanti, negli anni, li ho regalati), molti dei quali non ho letto. Il rammarico però è tale da avvertire la loro presenza fisica di oggetti, ciascuno dei quali ho trattenuto per un motivo che non ha, necessariamente, a che fare con il loro contenuto, ma con elementi diversi che stanno lì a suggerire potenzialità di lettura futura.  Un certo senso di onnipotenza vorrebbe farmi credere, illusoriamente, che vivrò abbastanza da leggerli tutti. Ma so, per certo, che è impossibile. Ci ho provato in tutti i modi. Ci sono stati addirittura periodi in cui la mia giornata cominciava con la lettura, al bagno, prima delle abluzioni mattutine, seduto sulla tazza. Nel mezzo della giornata, poi, ricavavo altri momenti da dedicare ai libri, durante il percorso in metropolitana per andare e tornare dall’ufficio, nella pausa pranzo, prima di cena e così via, senza, con ciò, riuscire a sconfiggere la mia bulimia di lettore, il senso di impotenza che mi assaliva di fronte alla massa di libri che mi ritrovavo (e ritrovo) in casa, che scoprivo nelle librerie e sulle bancarelle lungo la strada e che, inevitabilmente, continuo a comprare, senza ovviamente considerare  quelli che mi arrivano dagli uffici stampa delle case editrici per le recensioni. Vorrei leggere tutti i libri che, per un motivo o l’altro, mi attraggono: per aver suscitato interesse o curiosità dopo averne letto la recensione o sentito parlare; oppure, più probabilmente, per il nome dell’autore o la sua area di appartenenza (non tralascio di accumulare, ad esempio, nulla o quasi che venga dai Balcani e dalla Grecia); per l’argomento, la storia che racconta, così come, solo, per il titolo o la copertina, il formato, la grafica, la stampa, il testo del risvolto, financo per la foto dell’autore, cioè per tutti quei componenti del libro che si definiscono “paratesto”. Alla fine ho capito che è praticamente impossibile leggere tutto, sebbene, imperterrito, continui a portare libri in casa con la seria e convinta intenzione che ce la farò. D’altra parte, comprare o, comunque, acquisire libri, come già ricordava Schopenhauer, ha tempi infinitamente inferiori rispetto a quelli richiesti dalla lettura e, quindi, gran parte di essi si accumula sugli scaffali senza essere letti.
Quando, transitoriamente, per pochissimi anni - quelli compresi tra l’andata in pensione e la nascita del primo nipotino - ho avuto con continuità giornate intere a disposizione, ho potuto verificare che c’è un limite temporale che pone dei limiti oggettivi al consumo dei  libri, rapportate come sono le ore che dedichiamo ad essi da una parte alle cose della vita (anche quelle più semplici e necessarie, come il cibarsi e il dormire, ma anche le cure della salute, della famiglia e degli affari), e dall’altra alla mole dei libri stessi, alla loro facilità o meno di lettura e relativa velocità di scorrimento.
Tante volte, di fronte allo scoramento che mi prende, mi sono trovato a stendere ancora nuovi piani di lettura, che poi, inevitabilmente, sollecitato dall’incalzare di altri libri, non seguo. Ma pur se li rispettassi, mi sono accorto che rappresenterebbero, comunque, una sconfitta. Facendo un semplice calcolo approssimativo, la mia media annua di lettura si aggira su un paio di centinaia di libri (compresi quelli iniziati e poi tralasciati per scarsa corrispondenza con essi). Una pianificazione ponderata ed essenziale richiederebbe anni che oggettivamente superano la vita media di un uomo, ancor più quella di un ultrasessantenne quale io ormai sono. E per gli anni che, statisticamente, mi restano da vivere dovrei praticare il blocco di qualsiasi nuovo ingresso,  limitandomi a leggere solo i libri già in mio possesso. Ma anche questo è praticamente impossibile, a meno che, come Robinson Crusoe, non mi trovassi su un’isola disabitata.
L’unica soluzione, alla fine, non resta che quella di porsi obiettivi modesti, il più possibile realistici, che tengano conto dello stile e dei ritmi di vita, degli obblighi, degli altri interessi, delle priorità connesse al tempo che, più o meno, con una certa elasticità, in una giornata si può dedicare alla lettura. Ed è quella alla quale sono pervenuto con i due tempi quotidiani e la diversificazione nei weekend, che mi permette di muovermi contemporaneamente su tre linee. Anche se, devo ammettere, che nessuna delle soluzioni che io stesso negli anni, fino a quest’ultima, sono riuscito in qualche modo via via ad adottare mi hanno pacificato: talvolta, per qualche contrattempo, magari un libro deludente, spuntava sempre l’inquietudine di trovare qualcos’altro che potesse dare maggiore soddisfazione al desiderio di fare miei tutti i libri che avrei voluto leggere. Inquietudine che, credo, colga tutti coloro che, al pari di me, trovano nella lettura uno di quei bisogni che, come ha bene scritto Maurizio Bettini, rientri “fra le funzioni fisiologiche, o meglio (…) un’aggiunta necessaria, una seconda voce che si accompagna(va) al resto della vita quotidiana”.[1]
Certo, oggi, rispetto al passato, la grande conquista consiste  nell’aver liberato la sera dell’obbligo di leggere i libri da recensire  offrendola  ai libri che più  mi aggradano.  Una conquista non da poco, non solo per aver così ovviamente aumentato il cespite di libri, ma anche, soprattutto, perché una cosa è leggere libri scelti in piena libertà, un’altra con l’obbligo poi di doverne scrivere. Anche perché non sempre dai libri da recensire si trae quella soddisfazione che uno persegue e si attende, e non solo perché è una lettura indotta da circostanze e obblighi esterni. Non si prenda questo mio atteggiamento come una mancanza di rispetto nei confronti dei libri e degli autori trattati. Capita, anzi, tra i libri da leggere per  “lavoro”, di incappare talvolta in alcuni che riescono a coinvolgermi in maniera tale da farne lettura anche serale, nell’impazienza di attendere l’indomani, lasciando inevitabilmente indietro l’altro.  
Per cui il tempo si rivela sempre insufficiente.  
E, allora, ancora: come ricavarne altro per la lettura? Perché ce n’è, ce n’è… Se solo consideriamo il tempo buttato via a guardare la televisione! Il degrado culturale introdotto dalle tv commerciali, che ha finito per influenzare, fatte salve alcune trasmissioni, anche la RAI, ha raggiunto ormai limiti tali da non giustificare più la nostra primitiva dedizione. Non sarebbe meglio riservare quel tempo alla lettura, piuttosto che saltabeccare da un canale all’altro alla ricerca di qualcosa d’interessante o, quanto meno, di decente? Si tratta, a questo punto, solo di informarci consapevolmente sulle trasmissioni della serata, così come facciamo quando scegliamo un film per andare al cinema. Le fonti d’informazione, dal giornale quotidiano al settimanale specializzato, non mancano: si controlla l’offerta, la si valuta e, se questa risponde ai propri interessi, si accende il televisore solo all’ora e per il tempo necessario a seguire il programma prescelto. Si riduce così, tra l’altro, la schiavitù nei confronti di un media ammaliatore come la televisione, che alla resa dei conti offre molto meno di quello che promette e che ha solo nel magnetismo delle immagini, al di là dei contenuti, il suo punto di forza. Nei suoi confronti, l’uso della intelligenza (e della volontà) rappresenta l’unica arma. Non per contrastare o combattere la televisione, ma solo per usarla meglio. Anzi, un utilizzo intelligente, se generalizzato, potrebbe imporre ai produttori – anche se ne dubito, perché ragionano in termini non di qualità dei programmi, ma di audience – un maggior rispetto per il pubblico, anche nelle trasmissioni cosiddette di varietà, che possono avere motivi di divertimento meno volgari di quelli attuali. E’ chiaro che di fronte a un pubblico composto da persone che lavorano, alle prese con i tanti problemi e affanni quotidiani, o semplicemente ingrigito tra le mura della propria casa – penso a tante casalinghe, ai tanti anziani – l’intrattenimento ha la meglio rispetto a una televisione di contenuti. Certo, il libro, come strumento di evasione, richiede da parte del lettore un grado di interattività, di sforzo, che nei confronti della televisione è inesistente o quasi. Non senza fare danni, soprattutto da parte delle tv commerciali che, interamente votate all’intrattenimento, contribuiscono in maniera decisiva alla perdita di coscienza del proprio sé sociale e civile, al punto da produrre una percezione della realtà  indotta dalla televisione stessa,  per cui non solo un fatto è accaduto o un personaggio è importante a seconda se è apparso o appare in tv, ma lo stesso metro di giudizio si ferma sull’epifenomeno di questo o quel personaggio televisivo, verso il quale s’investono i propri sentimenti di simpatia o antipatia, di ammirazione o disprezzo, del tutto dimentichi del suo profilo assolutamente virtuale. Sta qui il successo delle veline, dei tronisti, delle letteronze dei grandi fratelli e compagnia bella. Il peggio è quando la strumentalizzazione si fa politica e si gioca la partita per il potere sulla pelle della massa ormai indifesa che, come  ben sa il tycoon delle tv commerciali prestato alla politica “non legge i giornali”, figurarsi i libri. La sua improntitudine, in spregio non solo delle più civili norme istituzionali ma degli elettori stessi, è arrivata addirittura a  voler candidare alle elezioni del 2009 per il parlamento europeo ben 21 veline su 72 deputati richiesti:  una provocazione, come si sa,  finita poi nel tritacarne dell’affaire Noemi,  Ruby,  Nicole Minetti e compagnia e nel “ciarpame”, come l’ha definito la (ex) consorte di Berlusconi, Veronica Lario, che tutto ciò rappresentava.
L’unico aspetto positivo, se vogliamo trovarne uno, è che, con questo sistema, se capita – come talvolta capita – di parlare di un libro in tv, o quantomeno in certe trasmissioni di grande ascolto, si trova gente disposta, proprio per i motivi di visibilità che dicevo, a comprarlo. Anche se poi raramente si presenta il libro per le sue intrinseche qualità letterarie, bensì per essere il suo autore prima di tutto un personaggio. Un altro discorso è se il libro promosso venga poi letto dopo essere stato, come assicurano le statistiche, comprato. Ma io spero di sì. Perché l’importante, intanto, è leggere, comunque e qualunque cosa, per acquisirne l’abitudine. Perché, una volta fatta propria, seguendo i percorsi prediletti, senza divieti di alcun genere verso nessun tipo di libro purché sia un libro, si può anche pervenire a forme di soddisfazione, di intimità con se stessi, che per quel tempo possono tenere lontana la brutta tv. E ciò, oltre che essere un punto a favore della civiltà, può rappresentare soprattutto l’inizio di un nuovo viaggio. Perché l’esperienza della lettura è assimilabile a quella di un viaggio, se compiuto con quella brama di scoperta capace di svegliare l’Ulisse che è in noi. Una ricerca senza fine, che non perviene a nessuna Itaca (come scrive Kavafis: “Itaca ti ha donato, essa, il bel viaggio./ Senza di lei non ti mettevi in strada./ Altro non ha da darti essa di più”), per cui finito un libro se ne comincia un altro e poi un altro ancora, nutrendo così lo spirito, arricchendolo, aiutandoci a guardare meglio intorno e dentro di noi, nella vita di tutti i giorni, magari così pervenendo anche a un più equilibrato rapporto con la televisione, quel tanto almeno da sottrarle quel potere di persuasione occulta che, al pari della peggiore droga, devasta le nostre menti.
Ma, sempre alla ricerca del tempo, non si esauriscono qui, nel sopravvento al dominio televisivo, tutti i momenti che è possibile dedicare alla lettura.
Quante sono, ad esempio, le attese estemporanee? Quando si va agli uffici postali, con quelle lunghe file agli sportelli, o dal medico per una visita… Più in generale, quanti sono, in una vita, i momenti di attesa? E quanti libri si possono leggere nella somma di quei momenti? A riguardo, un’amica, Patrizia Raveggi, oggi direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Il Cairo, in Egitto: “Un giornalista di vaglia suggeriva ai giovani di non sprecare i ritagli di tempo, di usare bene le tante attese di cui è intessuta la nostra quotidianità etero-movente: autobus ecc. Tu giustamente citi per prime le attese infinite dai medici e nei luoghi del denaro e della burocrazia. E’ così che alcuni astutamente apprendono nuove lingue, giorno per giorno, autobus dopo autobus, banca dopo banca, et voilà, alla fine parlano russo o svedese, e neppure se ne sono accorti. Non sono convinta però che tutti questi consigli valgano a spingere alla lettura chi non ne sente il desiderio. In realtà, questi che tu fai, sono discorsi in codice, consigli a chi già per conto proprio ama leggere e non può farne a meno. La maggioranza che tace e non legge, non è neppure approdata alle tue righe… Il tempo della lettura non le si presenta”.
E’ tanto vero che basta la mia vita stessa a dimostrarlo, nel corso della quale non ho mai smesso di leggere, sempre combattendo contro il tempo.  
Anche per questo, durante la mia vita lavorativa, esultavo all’arrivo delle ferie: oltre che per lo stacco dal lavoro e la possibilità di stare più a lungo con la mia famiglia, anche per le opportunità di lettura che mi offrivano. Di solito erano tre settimane piene, in vista delle quali la scelta dei libri da mettere in valigia diventava fondamentale. E, in realtà, lo è ancora oggi quando parto per una vacanza, pur ormai avendo la fortuna di non essere più condizionato dai giorni limitati delle ferie. Ma la vacanza, l’abbandonare per qualche tempo la casa e le abitudini e gli impegni di Roma, a cominciare dalle collaborazioni giornalistiche, per andare altrove implica, prima di tutto la scelta dei libri da portare con sé, tanto più complicata quanto è più è lungo il periodo dello stacco (ed ora, per me, lo stacco è molto più lungo di prima: le tre settimane si sono per lo meno raddoppiate).  Intanto, di fronte ad esso, avverto, più che in altre occasioni, la necessità di dare fondo a quei libri che durante l’anno non sono riuscito ad aprire. Una scelta molto ardua, nella quale non è ammissibile sgarrare, sia per il peso che rappresentano nella valigia sia per l’impossibilità successiva di cambi, condizione che mi spinge poi a infilare sempre libri in eccedenza rispetto al tempo a disposizione previsto (di solito un paio di mesi).
A riguardo, mi sono ampiamente ritrovato in quel testo del 1952 di Italo Calvino intitolato “I buoni propositi”[2]: “Il Buon Lettore aspetta le vacanze con impazienza. Ha rimandato alle settimane che passerà in una solitaria località marina o montana un certo numero di letture che gli stanno a cuore e già pregusta la gioia delle sieste all’ombra, il fruscio delle pagine, l’abbandono al fascino di altri mondi trasmesso dalle fitte righe dei capitoli. Nell’approssimarsi delle ferie, il Buon Lettore gira i negozi dei librai, sfoglia, annusa, ci ripensa, ritorna il giorno dopo a comprare; a casa toglie dallo scaffale volumi ancora intonsi (…) Si tratta, per esempio, di uno dei grandi romanzieri dell’Ottocento, di cui non si può mai dire di avere letto tutto, o la cui mole ha sempre messo un po’ di soggezione al Buon Lettore (…) Questo, s’intende, non è che il piatto principale, poi occorre pensare al contorno. Ci sono le ultime novità librarie delle quali il Buon Lettore vuole mettersi al corrente (…) e bisogna anche scegliere un po’ di libri che siano di carattere diverso da tutti gli altri già scelti, per dare varietà e possibilità di frequenti interruzioni, riposi e cambiamenti di registro. (…) I libri scelti sono tanti che per trasportarli tutti occorrerebbe un baule. Comincia il lavoro di esclusione…”.
Naturalmente, alla fine, pur nel lavoro di esclusione, i libri che mi porto dietro sono sempre in eccedenza rispetto alla possibilità di lettura pur offerta dalla vacanza. E, infatti, non riesco mai a leggerli tutti. Però, il numero superiore mi consente di avere a disposizione un ventaglio maggiore di titoli e di autori da leggere, così da assecondare le mie esigenze interiori del momento. Senza poi tener conto che se, puta caso, finissi di leggere tutti i libri prima del termine delle vacanze, sarebbe un dramma. Perciò, sì, molto meglio “abundare”…
Certo, ciò vale solo ed esclusivamente per il Buon Lettore. Colui che non ama leggere, per riprendere la sconsolata verità di Patrizia Raveggi, il tempo per farlo non gli si presenterà neppure in vacanza. Avrà sempre qualcos’altro di più importante da fare.  





[1] Maurizio Bettini, “Con i libri”, Einaudi, Torino, 1998
[2] In “Mondo scritto e mondo non scritto”, Oscar Mondadori, Milano 2002