giovedì 17 maggio 2012

ILMA RAKUSA
Talvolta si scoprono dei libri per caso. Non ricordo dove avevo letto di Ilma Rakusa e del suo libro “Il mare che bagna i pensieri”, edito da Sellerio, alcune cose che mi interessavano. Si parlava di Trieste, dell’Europa centrale, la vita di una donna attraverso i confini  di quella parte del mondo così legata alle mie radici. Giorni dopo, da Melbookstore, dimentico del nome dell’autrice e del titolo, ricordando solo l’editore, Sellerio, mi metto a cercare. Vado a intuito e, presto, m’imbatto in una copia, di dorso, tra i libri blu della Sellerio, che richiama la mia attenzione. Ilma Rakusa, forse è lei… Prendo e do scorsa alla bandella: “libro di ricordi… dietro c’è lo spazio geografico tra Trieste e Cracovia…  un vagabondare dalla Slovacchia fino a Zurigo, passando per Budapest, Lubiana, Trieste… un  trovarsi a seguire le onde dei destini collettivi, le complesse questioni identitarie, i cambiamenti politici e a volte di confini”.   Un’occhiata alla biografia: “Nata in Slovacchia nel 1946 da padre sloveno e madre ungherese…”. Non ho più dubbi: è lei la scrittrice che cerco. Prendo, pago e porto a casa.
La lettura è di quelle serali, quasi notturne, dopo i programmi Tv di prima serata (il pomeriggio è riservato alle letture di lavoro, cioè ai libri da recensire, per i quali l’abbandono è minore).  E Ilma Rakusa mi parla. Siamo quasi coetanei. Mi racconta la sua vita, il primo capitolo dedicato al padre, anni Trenta, l’università a Lubiana poi l’insegnamento a Zagabria, al Politecnico, assistente di Vladimir Prelog “il futuro premio Nobel”. Dopo la guerra Budapest, quindi Trieste con il suo golfo, la casa a Barcola, odori e colori che resteranno per sempre a Ilma nel cuore. E’ la Trieste ancora occupata dagli angloamericani, zona A e zona B, ogni tanto un viaggio a Lubiana, a casa dell’amato nonno Dedek. Fino al 1951 quando da Trieste si trasferiranno definitivamente a Zurigo, e il tedesco diventerà la lingua d’elezione di Ilma, senza però dimenticare le altre: sarà traduttrice dal russo (una borsa di studio la porterà per un anno a Pietroburgo a perfezionarsi nella lingua), dal serbocroato (sarà lei a tradurre Danilo Kiš), dall’ungherese. Una vita di viaggi, di lunghi soggiorni, Parigi, Vilnius, Cracovia, il treno come mezzo di trasporto. Le stazioni, così come le descrive lei, le stazioni dell’est europeo, allora comunista, ti restano nella memoria. “Stazioni color giallo mariateresiano, grigio sporco, divorate dalla rogna, cadenti, con e senza colonne, con un buffet maleodorante o con un semplice banco di mescita, con piante di geranio rinsecchite ed una piccola casa cantoniera, con i binari morti in mezzo alla tristezza della provincia”. Ritratti, stati d’animo, paesaggi, colori, odori, soprattutto odori, atmosfere. Sul filo della memoria di Ilma si attraversano spazio e tempo, e sempre, anche, in compagnia anche delle sue letture. Cattolica, è appassionata di testi ebraici. Nella sua valigia Nachman, Shlomo, Mendel, e, nelle sue passeggiate, sempre una visita è dedicata alle sinagoghe. Nel suo cuore e nella mente il dolore per lo sterminio degli ebrei in quella parte d’Europa da lei tanto amata “della cui tradizione culturale avevano pur costituito l’insostituibile cemento unificatore” come scrive nella postfazione Mario Rubino, presentando meglio l’autrice.  Che a me, una volta letto il suo libro, pare di conoscere da sempre. Anche per me, come per lei “l’est era il bagaglio che ci portavamo appresso. Con l’origine e l’infanzia e gli odori e le grandi prugne. Col carbon fossile e le paure e le locomotive a vapore e il seguito di fughe. Noi venivamo da LA’ e quei legami non li recidemmo mai”.
do scorsa alla bandella: “libro di ricordi… dietro c’è lo spazio geografico tra Trieste e Cracovia…  un vagabondare dalla Slovacchia fino a Zurigo, passando per Budapest, Lubiana, Trieste… un  trovarsi a seguire le onde dei destini collettivi, le complesse questioni identitarie, i cambiamenti politici e a volte di confini”.   Un’occhiata alla biografia: “Nata in Slovacchia nel 1946 da padre sloveno e madre ungherese…”. Non ho più dubbi: è lei la scrittrice che cerco. Prendo, pago e porto a casa.
La lettura è di quelle serali, quasi notturne, dopo i programmi Tv di prima serata (il pomeriggio è riservato alle letture di lavoro, cioè ai libri da recensire, per i quali l’abbandono è minore).  E Ilma Rakusa mi parla. Siamo quasi coetanei. Mi racconta la sua vita, il primo capitolo dedicato al padre, anni Trenta, l’università a Lubiana poi l’insegnamento a Zagabria, al Politecnico, assistente di Vladimir Prelog “il futuro premio Nobel”. Dopo la guerra Budapest, quindi Trieste con il suo golfo, la casa a Barcola, odori e colori che resteranno per sempre a Ilma nel cuore. E’ la Trieste ancora occupata dagli angloamericani, zona A e zona B, ogni tanto un viaggio a Lubiana, a casa dell’amato nonno Dedek. Fino al 1951 quando da Trieste si trasferiranno definitivamente a Zurigo, e il tedesco diventerà la lingua d’elezione di Ilma, senza però dimenticare le altre: sarà traduttrice dal russo (una borsa di studio la porterà per un anno a Pietroburgo a perfezionarsi nella lingua), dal serbocroato (sarà lei a tradurre Danilo Kiš), dall’ungherese. Una vita di viaggi, di lunghi soggiorni, Parigi, Vilnius, Cracovia, il treno come mezzo di trasporto. Le stazioni, così come le descrive lei, le stazioni dell’est europeo, allora comunista, ti restano nella memoria. “Stazioni color giallo mariateresiano, grigio sporco, divorate dalla rogna, cadenti, con e senza colonne, con un buffet maleodorante o con un semplice banco di mescita, con piante di geranio rinsecchite ed una piccola casa cantoniera, con i binari morti in mezzo alla tristezza della provincia”. Ritratti, stati d’animo, paesaggi, colori, odori, soprattutto odori, atmosfere. Sul filo della memoria di Ilma si attraversano spazio e tempo, e sempre, anche, in compagnia anche delle sue letture. Cattolica, è appassionata di testi ebraici. Nella sua valigia Nachman, Shlomo, Mendel, e, nelle sue passeggiate, sempre una visita è dedicata alle sinagoghe. Nel suo cuore e nella mente il dolore per lo sterminio degli ebrei in quella parte d’Europa da lei tanto amata “della cui tradizione culturale avevano pur costituito l’insostituibile cemento unificatore” come scrive nella postfazione Mario Rubino, presentando meglio l’autrice.  Che a me, una volta letto il suo libro, pare di conoscere da sempre. Anche per me, come per lei “l’est era il bagaglio che ci portavamo appresso. Con l’origine e l’infanzia e gli odori e le grandi prugne. Col carbon fossile e le paure e le locomotive a vapore e il seguito di fughe. Noi venivamo da LA’ e quei legami non li recidemmo mai”.

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